da: Domani
È il discorso in cui chiede Giorgia Meloni la fiducia agli alleati, ma in realtà gli alleati, che in serata le votano la fiducia, sono quelli più maltrattati. Esordisce ricordando che negli ultimi «dieci anni» si sono «succeduti governi deboli, senza un chiaro mandato popolare, incapaci di risolvere le carenze strutturali di cui soffrono l’Italia e la sua economia». Ce l’ha con i governi di larghe intese delle ultime due legislature, ma in particolare ce l’ha con Giuseppe Conte e Mario Draghi. Ma in realtà ce l’ha con Lega e Forza Italia che li hanno, a fasi alterne, sostenuti. Nella replica fa di meglio: rivendica la coerenza del suo partito e nei fatti dà degli incoerenti ai due vicepresidenti che ha accanto. Alla fine della giornata Lega e Forza Italia sono ancora alacremente impegnate a rialzare il prezzo delle vicepresidenze.
Il nuovo “ma anchismo”
Meloni si avventura in un viottolo stretto: prova a rassicurare i suoi elettori che non «tradirà» e non «indietreggerà», snocciola il più radicale orgoglio di destra mai pronunciato in un parlamento, con toni uguali a quelli di un comiziaccio di partito anzi a quelli del famoso comizio alla kermesse del movimento franchista Vox (e «boni», dice ai suoi che la applaudono e che la salutano come allo stadio «Giorgia, Giorgia»); riduce il fascismo alle leggi razziali e l’antifascismo a picchiatori di «ragazzi innocenti» che «venivano uccisi a colpi di chiave inglese»; data la nascita dell’Italia al Risorgimento e “dimentica” la repubblica nata dalla resistenza contro il nazifascismo. Fino al teatro dell’assurdo: ricorda il 27 ottobre, la
morte di Enrico Mattei, e tace del 28 ottobre, il giorno della marcia su Roma e dell’avvento del fascismo, cent’anni fra due giorni. Poi però prova a rassicurare l’Europa e le sue cancellerie, ma qui deve per forza restare sul vago, il suo governo si muoverà, dice, «con spirito costruttivo ma senza subalternità» coniugando «l’affermazione del nostro interesse nazionale con la consapevolezza di un destino comune europeo». Ma come, concretamente, non può dirlo, altrimenti dovrebbe «tradire» qualcuno: o le roboanti affermazioni della campagna elettorale («la pacchia è finita», per non parlare degli sproloqui filorussi di Salvini e Berlusconi) oppure la continuità con il governo Draghi, che per ora resta l’unica garanzia di autorevolezza. La presidente – «il» presidente si autodefinisce lei, libera di farlo – rivendica con orgoglio il suo essere prima premier italiana, ed è l’unico numero retorico che le funziona: ricorda le donne che prima di lei hanno rotto il «tetto di cristallo» (soffitto sarebbe stato più logico), chiama per nome le donne di cui parla. Ma è spericolata: mette insieme Nilde Iotti alla serva di Dio Chiara Corbella, morta per non essersi curata per salvare il figlio che portava in grembo. Nella replica le scappa la verità e ridicolizza il femminismo: «Non faccio battaglie per essere chiamata “capatrena”», e già che c’è dà del tu al deputato nero Aboubakar Soumahoro, poi è costretta a scusarsi.
Sotto gli slogan nulla
Per
il resto sotto gli slogan da campagna elettorale resta poco: pasticcia sulla
flat tax, non spiega da dove arriveranno i soldi per «asili nido gratuiti e
aperti fino all’orario di chiusura di uffici e negozi». Né sul caro bollette, glielo
ricorda Giuseppe Conte al suo esordio da parlamentare. Né sull’immigrazione: chiede
«la creazione sui territori africani di hotspot, gestiti da organizzazioni
internazionali». Era già lo slogan di Salvini, ed è già andato a infrangersi
contro il principio di realtà. Dice che proverà «un moto di simpatia» per i
ragazzi che scenderanno in piazza contro il suo governo; peccato che in quel
momento all’università La Sapienza di Roma la polizia sta manganellando gli studenti
che manifestano contro una conferenza di uno dei suoi. L’«assenza di
concretezza» del discorso di insediamento – è l’accusa di Enrico Letta,
segretario del Pd, «non abbiamo capito nulla sulla legge di bilancio che fra
qualche giorno dovrete presentare» – è pari solo dall’assenza di concretezza
delle minoranze. Che promettono «opposizione intransigente», ciascuna con
critiche anche dure, ma ciascuna determinata a fare il suo gioco a dispetto del
compagno di banco, condannandosi all’inefficacia. È
questo che rassicura la presidente e la tenuta del governo, più che il sostegno
infido della maggioranza. Oggi replica al Senato, è atteso il discorso di
Berlusconi. Se non si «contenesse» sarebbe molto più capace di far vacillare l’esecutivo
di qualsiasi impotente do di petto dell’opposizione.
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