da: Il Fatto Quotidiano – di Michela A.G. Iaccarino
Per il mondo che l’ha ammirata non abbastanza in vita e ha cominciato a farlo davvero solo dopo la sua morte, lei era “la Politkovskaja”. Negli uffici del suo quotidiano, la Novaya Gazeta, invece lei era Anna Stepanovna, con quel patronimico ereditato dal padre, diplomatico sovietico di stanza a New York quando lei è nata negli Stati Uniti nel 1958. In Russia non c’è ancora giustizia, ma c’è sempre memoria per la giornalista assassinata nel 2006, esattamente 15 anni fa, il 7 ottobre 2006. È una data che i russi ricordano: è il giorno del compleanno di Putin.
“La Novaya Gazeta era sinonimo di Anna Politkovskaja”. Questa frase che valeva anche letta al contrario la condividono veterani e giovanissimi giornalisti del quotidiano fondato nel 1993, che ha ora pubblicato il documentario Come hanno ucciso Anna. “Se in Russia fai il giornalista e non ti poni il compito di difendere i diritti umani, allora non sei giornalista. Questo era Anna”, dice la redattrice Anna Bobrova. “Non sono una corrispondente di guerra, ma una civile”. In alcune immagini inedite del filmato parla proprio Anna, prima che i suoi capelli diventassero bianchi, ma sempre dietro i suoi occhiali rettangolari. La donna che “rideva rumorosamente”, con i suoi lunghi orecchini d’argento che ciondolavano intorno al viso spigoloso, mentre correva da un incontro politico all’altro, si vede giocare col suo amatissimo cane nella sua casa sulla Frunzenskaya, dove verrà assassinata con quattro pallottole, una alla testa. Le scene delle telecamere di sorveglianza mostreranno
un uomo con un cappello che si allontana velocemente da quel sangue, ma che nessuno identificherà mai.La corrispondente speciale della Novaya correva dove colavano pallottole, bombe, dolore nelle Repubbliche ribelli russe. C’era in Daghestan, in Inguscezia, ma soprattutto in Cecenia. Prima di morire stava per pubblicare un articolo sugli affari compiuti dal caudillo di Grozny, Kadyrov. In seguito la pista cecena si è allargata a dismisura e nel cerchio di quanti la volevano morta (ed erano in tanti), spuntò anche il nome di uno dei primi oligarchi russi: Boris Berezovsky, cardinale grigio responsabile dell’ascesa del presidente Eltsin, poi pigmalione di Putin, fautore delle sanguinose tregue cecene. Chi l’ha chiamato “il padrino del Cremlino”, il giornalista Paul Klebnikov, ha condiviso il medesimo destino di Anna. Esiliato dallo stesso presidente che aveva creato, anche Berezovsky è morto: si è suicidato misteriosamente a Londra nel 2013. L’indagine complessa e lunghissima, “composta da una serie di fallimenti umani e politici”, narrata nei dettagli, senza dimenticare nessuna testimonianza falsata o depistaggio, ha condotto a un cerchio che non si è ancora chiuso.
Sei persone sono state condannate per l’omicidio della giornalista, le sentenze hanno inflitto a organizzatori, intermediari, esecutori dell’omicidio condanne che vanno dagli 11 anni all’ergastolo. Tra loro c’è anche un colonnello degli Affari interni russi. Manca però il nome più importante: quello del mandante. “Siamo in un tupik , un vicolo cieco”, dice Serghey Sokolov, capo del settore inchieste del giornale. Dal 2000 sei giornalisti della Novaya sono morti: nel 2009, Natalia Estemirova, collega e amica di Anna, che aveva preso il suo posto in Cecenia, è stata rapita e poi uccisa.
Oggi la scrivania della Politkovskaja è un piccolo museo in una delle ultime redazioni indipendenti che in Russia non hanno ancora chiuso. Pochi giorni fa, in base all’art. 78 del codice penale russo, sono scaduti i termini di prescrizione delle indagini del suo assassinio. La redazione ha pubblicato un libro: Za sto, qualcosa che si può tradurre come “perché o per quale motivo”, domande che la reporter ha posto ai russi per tutta la vita. La redazione spera che queste pagine "servano a riaprire le indagini. Anna merita giustizia, noi meritiamo la verità”. Nel 2006, pochi giorni dopo la morte della giornalista, Putin promise: “Faremo tutto il necessario per trovare i criminali, la sua uccisione è un atto contro la Russia, la sua morte ha provocato più danni dei suoi articoli”.
Più
forti delle parole del presidente che 15 anni dopo si sono rivelate fallaci, sono
state quelle profetiche scritte dalla reporter prima di morire: “Se vuoi
fare il giornalista in Russia devi essere totalmente servile a Putin. Oppure ti
aspetta una pallottola, il veleno, un processo o la morte”.
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