mercoledì 14 ottobre 2020

Paolo Giordano: Le verità parziali sul Covid e il punto di non ritorno

da: https://www.corriere.it/

Covid, Paolo Giordano: «Così la seconda ondata sta mutando la nostra psicologia»

«Dovrebbero smettere tutti di parlare di questa malattia», mi ha detto un tassista di Milano alcuni giorni fa. Mi raccontava degli alberghi del centro ancora spopolati, della difficoltà di chi opera in un settore come il suo. Ho obiettato che il virus non sarebbe scomparso anche se avessimo smesso di parlarne, e lui ha ribattuto sicuro: «Ormai si è capito che non è davvero pericoloso. Lo è al massimo per qualche anziano già malato». Siamo inclini a pensare che là fuori esistano i negazionisti, persone irrazionali e fanatiche, mosse da rancori profondi, e che qui esistiamo noi, ben informati e prudenti. Ma io dubito che il tassista con cui ho discusso fosse un negazionista. Era una persona preoccupata, esasperata e un po’ confusa. Quello che chiamiamo «negazionismo» non è una condizione univoca, semmai un continuum di atteggiamenti e mezze idee, uno spettro di tonalità nel quale ci collochiamo tutti. Dopo mesi di vita a singhiozzo, abbiamo maturato ognuno la propria resistenza personale all’ipotesi del contagio. Per alcuni si traduce nella convinzione che il Covid-19 sia una minaccia solo per una fascia ristretta della popolazione; per altri si tratta di interpretare i numeri con maggiore obiettività e accorgersi che il rischio non è alto quanto vogliono farci credere (è quel che diciamo ogni volta che ci sentiamo di puntualizzare che le terapie intensive sono ancora «mezze vuote»); per altri ancora è semplice stanchezza.

Le verità parziali, gonfiate dal desiderio di fare le cose della vita di prima come le facevamo prima, diventano facilmente scetticismo e sottovalutazione: negazionismo, se proprio vogliamo chiamarlo così, ma di un tipo più «debole», strisciante. Forse, il segreto delle seconde ondate è proprio questo: non la stagione fredda e nemmeno una mutazione del virus, ma una mutazione della nostra psicologia.

D’altra parte, se a febbraio conoscevamo a malapena il significato di espressioni come «test molecolare», «lockdown» e «superdiffusore», oggi siamo un po’ tutti epidemiologi. Basta scorrere certi post, tweet e articoli molto commentati in rete per accorgersene. È allora il momento di aggiungere al nostro vocabolario minimo pandemico un nuovo lemma: il «tipping point».

Il tipping point, o «punto di non ritorno», è la soglia che separa il regime di linearità dell’epidemia da quello di non-linearità. Se prima della soglia il contagio evolve in maniera graduale e abbastanza ordinata, come succedeva quest’estate, oltrepassato il tipping point la situazione si aggrava a dismisura e molto rapidamente. In una parola: esplode. Il tipping point è il momento a partire dal quale le cose precipitano. Nello specifico attuale potrebbe manifestarsi in modi diversi: il monitoraggio sotto stress che inizia a perdere troppe linee di trasmissione, gli ospedali che non riescono a far fronte al flusso dei ricoveri, i tamponi che diventano troppo lenti rispetto alle richieste, i medici di famiglia sovraccarichi che non rispondono più agli assistiti, oppure la somma dei nuovi positivi che d’un tratto si trasforma in un numero ingestibile di malati. Ci sono una miriade di soglie in questa epidemia e ognuna è come un argine. Finché tutti reggono, le cose vanno «abbastanza bene», ma se l’acqua rompe in un tratto qualsiasi il resto viene allagato in un istante.

Il problema principale nel rapportarsi con una dinamica a rischio di rottura della linearità è il fatto che nessuno sa in anticipo dove si trovi il tipping point, a quanti focolai, a quante ospedalizzazioni, a quanti nuovi contagi giornalieri. Nemmeno il monitoraggio più attento è in grado di prevederlo. Il punto di non ritorno è riconoscibile solo una volta che è stato superato, ovvero quando è troppo tardi. A febbraio lo abbiamo attraversato senza nemmeno accorgercene, ben prima di renderci conto della presenza del virus fra di noi. Sappiamo cosa è stato necessario, dopo, per frenare la caduta.

Adesso il tipping point ci sta di fronte, molto vicino oppure un po’ più distante, nessuno è in grado di dirlo con certezza. Chi guarda al rapporto fra nuovi positivi e tamponi effettuati sente di averne un’idea, ma si tratta di un’indicazione sufficientemente vaga. Chi insiste nel confronto con i numeri di marzo e aprile, come se ci stessimo muovendo all’indietro nel tempo, fa paragoni inappropriati. E chi dice «sì, ci sono i nuovi contagi, ma i ricoverati sono ancora pochi» sbaglia nella direzione opposta. Ciò che conta sapere è che il punto di non ritorno non si trova al 100% di occupazione dei posti in ospedale, né all’80% né, probabilmente, al 50%. Un ospedale che abbia la metà dei suoi letti occupati da malati Covid è un ospedale che sta già operando in sofferenza, è un ospedale a cui manca organico, che si trova costretto a curare peggio, a trascurare altri malati e a rimandare interventi necessari. La nostra sanità non è strutturata per funzionare in sovraccarico, è stata pensata per lavorare in un regime di normalità, molto lontano dalle soglie che ora vogliamo schivare. Il tipping point è più vicino di quanto il nostro istinto ci porta a supporre.

Il governo decide quindi di varare una serie di misure restrittive, sebbene, ancora una volta, in ritardo (ventiquattro ore in più di indugi a ottobre equivalgono a parecchi giorni persi un mese fa, quando la ripresa era già evidente, per i soliti effetti non lineari). Quanto alle norme stesse, che singolarmente hanno un loro senso, nel complesso sembrano ancora ispirate al paradigma della prima ondata («sta per esplodere, blocchiamo il più possibile dappertutto»), un paradigma che speravamo di aver superato. Si tratta, infatti, di misure indiscriminate rispetto al territorio, che rischiano di dimostrarsi insufficienti laddove servono davvero ed eccessive altrove.

Questa epidemia la si fronteggia innanzitutto con la percezione che i cittadini ne hanno. In questo momento avremmo bisogno di sentire la struttura territoriale, quella immediatamente circostante, solida e funzionale, non così fragile da richiedere un’altra azione muscolare dall’alto. Se il procedere delle regioni in ordine sparso era deprecabile ad aprile, oggi sarebbe un segno di affidabilità.

I danni che questa distinzione mancata può comportare sono perfino più ampi della scarsa efficacia: si rischia di rafforzare ulteriormente gli atteggiamenti di resistenza psicologica già presenti in tutti noi, di spingerci ancora di più verso le innumerevoli forme di negazionismo debole, rendendoci un po’ più scettici, un po’ più esasperati, un po’ meno collaborativi. La fiducia nel contesto viene incrinata dalle continue contraddizioni in cui ci ritroviamo, alcune facilmente risolvibili («Perché non posso rischiare giocando a calcetto e devo rischiare mandando mio figlio a scuola? Perché la scuola è prioritaria, punto»), altre molto più difficili da accettare («Perché dovrei rispettare un limite di inviti a casa, se per tornare in quella stessa casa mi tocca viaggiare ogni giorno su un mezzo di trasporto affollato?»).

Ecco, arrivati a ottobre ci aspettavamo che il contagio fosse maneggiato un po’ meglio, ma le nuove misure, pur inevitabili a questo stadio, non rispecchiano veramente quel meglio. Perfino noi, epidemiologi dell’ultima ora su Facebook e Twitter, ce ne rendiamo conto.

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