da: Il Fatto Quotidiano - di Stefano Caselli, Maddalena Oliva, Marco Pasciuti, Natascia Ronchetti e Andrea Sparaciari
Cinque mesi dopo il lockdown, tutte le carenze delle Regioni
Pronte al puntiglio quando in gioco c’è il confronto con il governo, meno quando si tratta di fornire dati certi sulla riorganizzazione sanitaria e sulla risposta del sistema all’aumento dei contagi. Nelle Regioni si avverte il caos, come se fossimo di nuovo impreparati a fronteggiare una seconda ondata.
“Hanno dormito”, ha detto pochi giorni fa Walter Ricciardi, consigliere del ministro alla Salute Roberto Speranza, in un’intervista alla Stampa. Più o meno tutte, tranne Emilia Romagna e Veneto, “che si sono attrezzate”. Ma com’è effettivamente la situazione?
Abbiamo analizzato alcune delle Regioni che preoccupano per il livello di incremento della curva dei contagi, secondo una griglia di 8 indicatori. Ecco cosa abbiamo scoperto.
1. Dai tamponi al Test&Track
“Col contact tracing siamo in arretrato di almeno 2.500 inchieste dal mese di settembre, solo a Milano. Chi doveva organizzare, non si aspettava il picco di agosto e ora si trova spiazzato. Stanno cercando personale per potenziare il servizio”. A parlare sotto stretto anonimato è un operatore del servizio di tracciamento della Lombardia.
Un sistema andato in tilt, incapace di risalire la catena dei contatti di ogni singolo positivo segnalato dall’Ats di Milano, solo per fare un esempio. Una falla comune a tutte le Regioni, le quali si sono rifiutate di comunicare al Fatto i risultati dei rispettivi servizi di contact tracing.
Andrea Crisanti, il microbiologo inventore del modello Veneto, lo dice da mesi: bisognava aumentare la capacità di fare tamponi fino 300mila al giorno. Le Regioni, chi più e chi meno, si sono mosse: secondo la Fondazione Gimbe, i laboratori che processano i tamponi da aprile a oggi sono passati da 152 a 270. Oggi la Lombardia, dove i laboratori sono passati da 19 a 47, arriva a farne 25mila al giorno. Il Lazio è passato dai 1.300 di marzo ai 12.400 di media tra il 4 e il 10 ottobre. La Sardegna, invece, non va oltre i 1 .700. Per Altems-Università Cattolica, la Campania è quella che ne ha fatti di meno: solo il 7,19% dei residenti è stato sottoposto al test contro una media nazionale dell’11,98%. La Regione di Vincenzo De Luca ha un altro problema: per l’88% fa tamponi diagnostici, cioè a chi ha già i sintomi, e solo il 12% del totale lo usa per fare screening, cioè per andare a cercare gli asintomatici. La più virtuosa in questo senso è la Puglia: passata da una media di 1.730 test al giorno di marzo ai 3.730 di oggi, è quella che fa più screening (70%).
A misurare la reale diffusione del virus sono i casi testati ovvero i tamponi che hanno individuato il positivo, senza quelli che ne certificano la guarigione: se fino alle riaperture del 3 giugno se ne facevano 35mila al giorno, tra il 5 e l’11 ottobre si è arrivati a 67mila. Rapportato alla popolazione, il valore dà un’idea chiara delle differenze tra le Regioni: si va dagli 8.002 casi testati per 100mila abitanti del Lazio ai 3.232 della Sicilia. Nel complesso “le attività di testing non sono state potenziate in misura proporzionale all’aumentata circolazione del
virus –spiega Gimbe – determinando un netto incremento del rapporto positivi/casi testati a livello nazionale che da metà luglio a metà agosto è salito dallo 0,8% all’1,9%, per raggiugere tra il 5 e l'11 ottobre il 6,2%”. Tra le maglie nere, spiccano Liguria (12,1%) e Campania (8,9%).
2. Terapie intensive
Ne avevamo poco più di 5mila in fase pre-pandemica. E oggi, al Sud in particolare, “non abbiamo contezza che ci sia stata un’effettiva implementazione proporzionale alla densità di popolazione. L’obiettivo del governo erano 8.700 posti, ai quali aggiungere circa 4.000 di sub-intensiva, però stiamo parlando di un piano ancora sulla carta”. È l’allarme lanciato ieri da Alessandro Vergallo, presidente nazionale dell’Aaroi. A oggi, la disponibilità dei posti di TI, a livello nazionale, è ferma a 6.458 letti totali. Con grandi differenze tra le regioni. Differenze dovute alla presenza o meno di Covid Hospital, o a piani sanitari che hanno sì stabilito l’aumento delle postazioni, ma che ancora non sono compiuti. Così, molti posti letto sono ancora da attivare. In Lombardia i posti disponibili “fissi” sono 983, ma grazie ai due Covid Hospital di Milano e di Bergamo (oggi in disarmo), si arriva a 1.260. In Veneto, che è stata l’unica Regione ad aver mantenuto gli stessi letti creati durante la prima ondata, i posti sono 825. Va molto peggio in Sardegna dove i letti di intensiva, col nuovo piano sanitario, dovranno arrivare a 236, ma i lavori sono in corso. In Piemonte, è previsto un incremento di 299, per raggiungere i 610 totali. Discorso a parte merita la Campania, dove le TI sono solo 427, con il rapporto più basso d’italia tra letti e abitanti: 7,3 letti per 100mila abitanti. Il Lazio, invece, ha adottato una strategia “a fisarmonica”: attiva i posti in TI in base alle necessità. Quelli attuali sono 200. Variegata anche la soluzione scelta per i “posti letto covid”. Per la Sicilia i numeri sono un mistero: lo staff dell’assessore alla Salute, Ruggero Razza, ha riferito al Fatto che “in emergenza c’erano circa 2mila posti letto”, oggi però “non è in grado di rispondere”. Così come non ha risposto la Liguria.
3. Medici e sanitari
Il Piemonte, dopo l’emergenza, ha reclutato 2.503 operatori (387 medici e 1.807 infermieri). L’Emilia-Romagna di medici ne ha ingaggiati 803, di infermieri quasi 2.800. Il Lazio, tra rapporti libero-professionali e assunzioni, ha inserito oltre 750 medici e 1.341 infermieri. Circa in 3mila sono andati invece a potenziare il sistema sanitario siciliano. La Campania ha fatto leva su 800 nuovi infermieri e solo 150 medici in più. Quanto alla Lombardia, ha potenziato con 4.900 tra medici e infermieri, destinandoli in buona parte agli ospedali.
4. Numero di Usca
E le Unità speciali di continuità assistenziale? C’è chi le ha diminuite, chi aumentate. L’Emilia Romagna nel picco dell’emergenza, in primavera, ne aveva 80, con 440 medici, oggi ne ha 56. In Campania, sono 60 per 330 medici. La Sicilia ne aveva 68, le ha portate a circa un centinaio. La Puglia sulle Usca non risponde, mentre in Piemonte sono 90.
5.Dpi
Oltre 859 milioni di pezzi. A tanto ammontano le mascherine fornite alle Regioni dalla Protezione civile da marzo, in piena pandemia, al 9 ottobre. Quasi 89 milioni sono arrivate all’Emilia-Romagna, più di 125 milioni alla Lombardia. La Siciliane ha avute oltre 35 milioni, la Campania 29, il Lazio 67, il Piemonte 23. Sono in molte le Regioni che dicono di aver fatto poi ordinativi aggiuntivi. Ma per quale ammontare non è dato sapere. Si hanno solo i numeri sulle giacenze attuali: la Campania ha 3,5 milioni di mascherine, la Sicilia 7,5. La Puglia e il Veneto non rispondono. Una cosa è certa. Nelle Rsa, alle quali sono state girate in totale in Italia 40,3 milioni di mascherine, in Lombardia –dove nelle case di riposo ci sono circa 70mila posti letto – ne sono arrivate poco più di 13,5 milioni, mentre in Campania appena 191mila.
6. Vaccini anti influenzali
La maglia nera spetta sicuramente alla Lombardia, che, secondo i dati elaborati da Gimbe, si è assicurata solo
2.282.465 di dosi vaccinali, a fronte di una popolazione target (cioè il 75% degli aventi diritto, over 60, cronici e bambini da 6 mesi a 6 anni) pari a 3.442.296 unità. Un deficit degli acquisti, con cinque gare andate fallite su dieci. L’ultima, per 500mila dosi, è stata bloccata perché le due società vincitrici non erano in regola con Anac e Aifa. Ma non ride neanche il Molise, dove le 56.370 dosi stoccate coprono solo il 29% della popolazione target (194.185 persone). Anche l’Abruzzo stenta: 228.000 dosi, popolazione target 465.768. Esempio positivo la Puglia, che a fronte di una popolazione di 1.353.822 unità, si è assicurata 2,1 milioni di dosi.
7. Piano per Rsa
In ordine sparso, a livello locale, alcune Regioni si sono mosse d’anticipo, bloccando le visite agli esterni. Decisione che, da indicazioni del nuovo Dpcm, è estesa a tutto il livello nazionale. In Lombardia, dopo la mattanza dei nonni, il 2020 si chiuderà con due milioni di giornate in meno di presenza, per gli ospiti che non ci sono più. Bene ha fatto l’Emilia-Romagna, disponendo 4,6 milioni di mascherine per gli ospiti degenti. In Sicilia, per avere un paragone, siamo a quota 620mila.
8. Piani pandemici
Una buona notizia: il Piemonte lo ha adottato a settembre 2020. La Lombardia, invece, nonostante si sia scoperta priva di un Piano pandemico regionale durante la prima fase della pandemia, è ancora ferma. L’ultimo documento ufficiale al riguardo è del 2010: “Conclusione fase 6 pandemia influenzale da virus A/H1N1” (giunta Roberto Formigoni), affinché “si facesse tesoro delle criticità insorte”. Appunto. Anche la Puglia è ancora ufficialmente priva di un piano pandemico, ma è in bozza. In fase di aggiornamento.
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