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Congo,
l’inferno del Coltan e la manodopera della disperazione
È
un minerale indispensabile per i nostri smartphone. Si estrae nelle miniere del
Congo, controllate dai signori della guerra. Che danno «lavoro» a milioni di
schiavi «volontari»
di Andrea
Nicastro
Il coltan è un minerale di superficie e per
estrarlo non bisogna fare costosi tunnel di chilometri. È raro, si trova in
Congo e in pochi altri Paesi. E soprattutto è indispensabile per i nostri smartphone e per l’industria aerospaziale. Facile, prezioso, utile: tre
vantaggi che ne fanno il bancomat della giungla, disponibile per chi abbia un
esercito privato, sia guerrigliero o militare corrotto. La manodopera della
disperazione è semplice da «creare». Basta razziare nelle province vicine,
uccidere, violentare. La gente scapperà e verrà a scavare proprio per il
«Signore della guerra» che controlla il coltan. Senza che lui investa un
centesimo per allestire la miniera, la gente si organizzerà in clan di 30-40
persone. Gli uomini estrarranno le pietre con le vanghe, le donne e i bambini
le laveranno a mano nell’acqua e le trasporteranno al mediatore più vicino. A
volte cammineranno anche due giorni nella foresta con trenta chili sulle
spalle. I minerali verranno imbarcati per la Cina o la Malesia dove i due
metalli del coltan (columbine e tantalio) verranno separati per essere venduti
all’industria high tech. A ogni passaggio il Signore della guerra prende una
tangente e si arricchisce sulla miseria altrui. Può essere un ribelle, un
colonnello dell’esercito o un poliziotto.
Il Congo è pieno di schiavi volontari al
servizio di uomini forti. Milioni, senza neppure la dignità di una statistica
attendibile: bambini analfabeti, orfani, condannati tramandare da una
generazione all’altra la maledizione delle miniere. Rapporti Onu parlano di 11
milioni di morti legati al controllo di questo business. Di chi è la colpa? Di
un Paese troppo ricco di risorse e troppo povero di capitale umano. Dell’era
coloniale. Del post colonialismo. Del neoliberismo. Della corruzione. Del
fallimento dello Stato. Dei nostri smartphone e missili spaziali. Quasi l’80
per cento del minerale per i telefonini proviene dalla Repubblica Democratica
del Congo, l’intero Paese, invece di arricchirsi, ne è sconvolto e per di più,
boicottare l’uso del metallo sarebbe come condannare alla fame milioni di persone.
Suor Catherine delle sorelle del Buon
Pastore, in missione a Kowesi, nell’ex provincia congolese del Katanga si
sforza di spiegare la corsa al coltan. «La gente non scava nelle miniere
artigianali per diventare ricca. Lì si abbrutiscono, si prostituiscono, si
ubriacano, si ammalano e muoiono. Chi comincia sa già quale sarà il suo
destino. Eppure arrivano di continuo. C’entra il fatto che sono stati scacciati
dalle loro terre, ma anche altro, come spiegare a un europeo?». Nella cornetta
si sente un coccodé e Suor Catherine si illumina. «Ecco forse così potrete
capire: lo fanno perché non hanno le galline. Questa gente ha fame, in un
paradiso ricco d’acqua e piante meravigliose come il Congo, non sono in grado
di coltivare o allevare un pollo, sanno solo scavare».
«È la maledizione della ricchezza —
sostiene il funzionario Onu Maurizio Giuliano, grande conoscitore dell’Africa
—. Da 20 anni a questa parte sono quasi scomparse per ragioni politiche le
grandi compagnie minerarie che offrivano un certo welfare ai loro operai. C’era
paternalismo sì, ma la privatizzazione delle concessioni in assenza di un aiuto
alternativo ha distrutto la coesione sociale. Signori della guerra controllano
decine di migliaia di lavoratori in schiavitù volontaria. Stupri di massa e
abusi di ogni genere sono la regola. E chi non scava o spara, muore di fame».
Bambini di 5 anni in miniera, bambine di 11 nei bordelli delle bidonville
minerarie, madri abbandonate con 5-10 figli che muoiono di fatica e malattia a
trent’anni, orfani, schiavi volontari per un uovo al giorno.
Questi minatori «artigianali», dentro la
giungla, guadagnano 3-4 dollari al giorno. Donne e trasportatori 2. I bambini
anche meno. «Però così riescono almeno a mangiare — insiste ancora suor
Catherine —. Il cibo in Congo è carissimo perché importato. Uova dallo Zambia,
fagioli dalla Namibia, cavoli e mele dal Sud Africa». Chi compra il minerale
dai minatori è spesso lo stesso che gli vende il cibo riprendendosi gli
spiccioli che gli ha appena dato. «Basterebbero delle galline a dare
un’alternativa».
Per aiutare i bambini minatori del Congo
sarebbe, forse, utile un altro Leonardo DiCaprio. Il suo film Blood diamond
(Diamanti di sangue) aiutò a incrinare il legame tra pietre preziose e guerre
perché da sempre si cercano gemme per comprare armi, ma è con le armi che ci si
impossessa delle gemme. Lo stesso sta accadendo con i metalli per l’High-Tech.
Anche grazie a DiCaprio le regole internazionali sono cambiate in meglio. Il
commercio dei diamanti non si è convertito in un esercizio di virtù, ma almeno
chi vuole comprare pietre pulite oggi può farlo. Vale lo stesso per gli
smartphone che abbiamo in tasca? «Da due anni a questa parte — spiega Cristina
Duranti, della Fondazione Internazionale Buon Pastore — la catena di approvvigionamento
dei metalli rari ha ricevuto maggiore attenzione. È entrata in vigore la
riforma di Wall Street, la Dodd-Frank Act, che impone di controllare che le
materie prime non alimentino i conflitti del Congo. Ci sono stati dei passi
avanti, ma resta grande il problema del contrabbando e delle milizie».
Karen Hayes è la direttrice del programma
«dalla miniere al mercato» della Ong Pact finanziata dalle industrie che usano
il coltan e dal governo olandese. «Dal 2010 — racconta — abbiamo catalogato 800
miniere, mappato le zone di conflitto, distribuito computer e insegnato agli
Stati a sorvegliare la catena dell’export. Oggi possiamo dire che le armi sono
scomparse dalle miniere, anche se restano i bambini minatori e la povertà».
Pochi però, vedono come Pact, il bicchiere mezzo pieno. Amnesty International
sostiene che la Dodd-Frank Act ha solo scalfito il problema e la maggioranza
delle società non ha neppure tentato di ottemperare alla Legge soprattutto per
la parte del business che avviene nella giungla.
Una compagnia privata, la Fairphone, si
vanta di produrre esclusivamente telefonini «senza guerra». «Controlliamo
direttamente tutte le fasi dell’approvvigionamento — spiega Laura Gerritsen,
responsabile del programma —. Così evitiamo il boicottaggio e non danneggiamo
l’economia del Paese basato sulle miniere». Dalla parte opposta dell’etica del
lavoro, società cinesi, kazake o comunque non quotate a Wall Street, ignorano
qualsiasi procedura e comprano coltan da chiunque senza voler sapere come l’ha
estratto. Il problema è enorme come il Congo, 80 milioni di abitanti, un
governo conteso e un livello di scolarità che invece di crescere diminuisce.
«Non è più solo un problema di sfruttamento
internazionale — dice il professor Luca Jourdan dell’Università di Bologna —. È
peggio oggi il fallimento dello Stato. Le autorità hanno assunto una forma
violenta e predatoria. Le istituzioni si mostrano efficienti quando
distribuiscono concessioni minerarie ai famigli del potere e le proteggono con
la forza. Quando invece si tratta di difendere i diritti basici delle persone,
dai bambini, alle donne, ai lavoratori, lo Stato smette di esistere. Il
risultato sono intere generazioni perdute, un popolo ridotto in schiavitù».
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