da: https://www.ilfattoquotidiano.it/
L'ANALISI
DEI NUMERI - Durante i governi Renzi e Gentiloni il debito è aumentato di oltre
176 miliardi, la spesa corrente è lievitata di 25 miliardi e
gli investimenti pubblici sono scesi al minimo storico. L'unico dato
positivo è il calo degli interessi sul debito, merito di Draghi. Carlo
Cottarelli, ex commissario alla spending review e oggi direttore di un
osservatorio sulla finanza pubblica: "Si è scelto di ridurre un po' le
tasse senza tagliare le uscite"
di Chiara
Brusini
“Dal 2014 abbiamo puntualmente rivisto al
ribasso gli obiettivi ogni sei mesi. I governi, invece che risanare i conti,
hanno preferito ridurre un po’ le tasse – per esempio con il bonus Irpef
di 80 euro e l’eliminazione dell’Imu prima casa – senza tagliare la spesa.
Forse per comprarsi qualche punto in più di crescita. O, a essere malevoli, per
cercare di vincere un’elezione o un referendum“. L’economista Carlo
Cottarelli, ex commissario alla spending review, fino a fine ottobre direttore
esecutivo nel board del Fondo monetario internazionale e oggi alla guida dell’Osservatorio
sui conti pubblici dell’Università Cattolica, evita di dare esplicitamente
ragione al vicepresidente della Commissione Ue Jirki Katainen.
Ma il messaggio è chiaro. Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan hanno un bel
dire che “non siamo più il fanalino di coda” e “la finanza pubblica migliora”.
Come rilevato dalla Commissione Ue nella lettera inviata a
Roma il 22 novembre, i numeri messi nero su bianco nei
documenti ufficiali dal governo di Matteo Renzi e da quello “fotocopia” del suo
successore raccontano un’altra verità. Negli ultimi tre anni e mezzo i nostri
conti pubblici sono peggiorati.
L’eredità lasciata al prossimo premier? Il debito
dal febbraio 2014 è aumentato di oltre 176 miliardi, portando la zavorra a
un totale di 2.283,7. La spesa corrente è lievitata di 25 miliardi a dispetto della celebrata spending.
E gli investimenti pubblici sono scesi al minimo storico. Fanno
eccezione solo le variabili influenzate da fattori esterni: la crescita del pil,
trainata dalla ripresa europea ma ancora stentata rispetto a quella dei
partner, e la spesa per il servizio del debito, calmierata dal programma di
acquisti della Bce. Che nel 2018, quando a Palazzo Chigi ci sarà un
nuovo inquilino, inizierà però a chiudere i rubinetti.
Sul
debito previsioni sbagliate di 13 punti
“Nel Documento di economia e finanza
dell’aprile 2014”, ricorda Cottarelli, “avevamo promesso che quest’anno il surplus
primario, cioè la differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi
sul debito, sarebbe stato al 4,6%. Invece ce lo ritroviamo all’1,7%, meno
rispetto a quanto promesso e addirittura meno che a inizio legislatura, nel
2012″. In soldoni, ogni anno la pubblica amministrazione ha continuato a
smentire le promesse e a spendere più di quanto incassava. Questo,
peraltro, “al netto del costo dei derivati, che con scarsa trasparenza non è
conteggiato nel deficit. Con il risultato che il debito tende ad aumentare più
di quanto fa credere il deficit”. A febbraio 2014, quando il segretario Pd si è
insediato a Palazzo Chigi, era a quota 2.107,2 miliardi (rispetto ai 1.990 del
2012). A dicembre 2016 era salito a 2.217. Ora siamo oltre quota 2.280.
“Ci aspettiamo un calo deciso del debito in un prossimo futuro”, ha detto Padoan in un’intervista a Cnbc riferendosi al rapporto tra debito e pil nominale, quello che tiene conto dell’inflazione. Stando alla nota di aggiornamento del Def, il debito/pil dovrebbe ridursi dal 131,6% del pil al 130% nel 2018 e al 123,9% nel 2019. I precedenti però non promettono bene. Il Def 2014, il primo del governo Renzi, sosteneva che a fine 2018 si sarebbe ridotto al 120,5% del pil, 12 punti percentuali in meno rispetto alla fine del 2013. Stando alle ultime stime, al contrario, sarà di un punto percentuale più elevato. “Come andrà in futuro dipende dall’andamento dell’inflazione“, spiega l’economista. “Meno inflazione vuol dire meno crescita del pil nominale e minore discesa del rapporto. Il governo continua a prevedere che l’inflazione aumenterà. Ma con un tasso di disoccupazione così alto è difficile che il livello dei prezzi salga. Inoltre durante la crisi abbiamo perso competitività e abbiamo bisogno di un’inflazione bassa per recuperare terreno rispetto alla Germania”.
“Ci aspettiamo un calo deciso del debito in un prossimo futuro”, ha detto Padoan in un’intervista a Cnbc riferendosi al rapporto tra debito e pil nominale, quello che tiene conto dell’inflazione. Stando alla nota di aggiornamento del Def, il debito/pil dovrebbe ridursi dal 131,6% del pil al 130% nel 2018 e al 123,9% nel 2019. I precedenti però non promettono bene. Il Def 2014, il primo del governo Renzi, sosteneva che a fine 2018 si sarebbe ridotto al 120,5% del pil, 12 punti percentuali in meno rispetto alla fine del 2013. Stando alle ultime stime, al contrario, sarà di un punto percentuale più elevato. “Come andrà in futuro dipende dall’andamento dell’inflazione“, spiega l’economista. “Meno inflazione vuol dire meno crescita del pil nominale e minore discesa del rapporto. Il governo continua a prevedere che l’inflazione aumenterà. Ma con un tasso di disoccupazione così alto è difficile che il livello dei prezzi salga. Inoltre durante la crisi abbiamo perso competitività e abbiamo bisogno di un’inflazione bassa per recuperare terreno rispetto alla Germania”.
Spesa
corrente senza freni
Intanto la spesa corrente – quella per stipendi,
acquisti e prestazioni sociali – è salita dai 691 miliardi del 2014 ai 706 del
2016 ed è prevista in ulteriore progresso, a 716 miliardi nel 2017 e 725 nel
2018. A dispetto dei tagli lineari sui budget dei ministeri e degli sforzi di revisione della spesa, che di fatto si sono
tradotti nella riduzione di alcune voci a vantaggio di altre.
Del resto previdenza e assistenza per loro natura
richiedono sempre più risorse e per scelta politica si è deciso in questi anni
di non toccare nemmeno le pensioni non giustificate dai contributi
versati come invece avevano auspicato Cottarelli e il
successore Roberto Perotti, che ha dato le dimissioni a fine 2015 lasciando
l’ingrato compito al deputato Pd Yoram Gutgeld. E “gli incrementi previsti per
il periodo 2017-2020 sono pari a 42 miliardi, aumento addirittura superiore a
quello storicamente registratosi negli anni 2012-2016 (17 miliardi circa)”, si
legge nell’ultimo Rapporto sull’economia reale del centro studi indipendente Economia
reale dell’economista ed ex parlamentare di An, Pdl e FI Mario
Baldassarri.
Giù gli interessi grazie alla Bce. A picco
gli investimenti
Se la spesa pubblica totale si è fermata
nel 2016 a 830 miliardi, “solo” quattro in più rispetto al 2014, è perché tra
2014 e 2016 gli interessi sul debito sono calati da 74 a 66 miliardi, molto
meno di quanto stimato nei documenti di bilancio. Nel 2017 sono previsti
stabili a quota 66: addirittura 43 miliardi in meno rispetto a quanto previsto
dal governo Monti nel 2013. Un “bonus” per il quale bisogna ringraziare Mario
Draghi: grazie agli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce, i tassi
offerti dai Btp decennali sono scesi dal 3% del 2014 all’1,4% del 2016. Quello
spazio di manovra, però, non è stato utilizzato per investire di più, come era
stato promesso anche alla Commissione Ue in cambio di flessibilità sulla
riduzione del deficit. Al contrario, gli investimenti fissi lordi nel 2016 si
sono fermati a quota 35 miliardi, il minimo storico. Un ulteriore calo rispetto
ai 38 miliardi del 2013 e ai 37 del 2014 e 2015. Nel frattempo, rivendica
Padoan, il pil è ripartito. Ma “questo dipende dalla ripresa della Ue nel suo
complesso”, ribatte Cottarelli. “Non credo saremmo cresciuti molto meno se
avessimo fatto l’aggiustamento”.
L'ipoteca
delle urne sul risanamento
“Se non ci fossero le elezioni forse le
cose sarebbero state più facili”, commenta Cottarelli parlando della legge
di Bilancio contestata da Bruxelles. Ma, appunto, a marzo 2018 ci sono le
politiche. E nel maggio 2014 c’erano le Europee, seguite nel 2015 e 2016 dalle amministrative
con in ballo i Comuni di Milano, Roma e Torino e dal referendum costituzionale dello
scorso dicembre. Com’è andata si sa. Il risultato è stato che per evitare
decisioni impopolari o politicamente difficili gli ultimi esecutivi hanno
rinviato la messa in sicurezza della finanza pubblica. Proprio nella fase in
cui gli interventi espansivi dell’Eurotower avrebbero consentito di arrivare al
pareggio di bilancio – l’equilibrio tra entrate e uscite – senza eccedere
con l’austerità, grazie agli spazi di manovra offerti dal calo degli interessi
sul debito. Secondo Cottarelli, comunque, non tutto è perduto. L’Italia può
ancora attrezzarsi contro future turbolenze sui mercati a danno dei Paesi
giudicati “deboli” dagli investitori. Come chiesto dallo stesso Draghi: “Questo
non è solo il tempo di fare le riforme strutturali, è anche il tempo per
migliorare la situazione dei bilanci, senza aspettare che venga dalla crescita
o dai tassi bassi. I Paesi devono riguadagnare spazio di policy nel caso ci sia
una nuova crisi”, ha detto il presidente della Bce parlando al Parlamento Ue il
20 novembre.
Il
rinvio del pareggio e il conto del regalo alle banche
Ma di tempo non ce n’è molto: “Nel 2019 alla
guida della Bce andrà probabilmente qualcuno con un punto di vista più vicino a
quello di Berlino. Al più tardi tra due anni, quindi, la facilità di
finanziamento attuale non ci sarà più”. E gli interessi sul debito torneranno a
salire. In questo quadro, “ora che siamo in un periodo di crescita
basterebbe congelare la spesa al 2017 e nel 2020 raggiungeremmo il pareggio”. Ma
la manovra per il 2018 va in direzione diversa: non riduce le uscite e rinvia
ancora il pareggio strutturale, spostando in avanti di un anno gli aumenti automatici di
Iva e accise previsti dalle clausole di salvaguardia. Secondo
Bruxelles, peraltro, anche nel 2019 Roma non solo non sarà in pareggio ma se ne
allontanerà, registrando un indebitamento del 2% del pil e un saldo strutturale
di -2,4%. Non basta: per il 2017, come evidenziato dall’Ufficio parlamentare di
bilancio, i dati ufficiali evidenziano “una crescita della spesa complessiva
più elevata del previsto” a causa, stando a una prima valutazione, di “maggiori
deferred tax assets trasformate in crediti di imposta rimborsabili“. Leggi
gli sconti fiscali concessi alle banche che hanno chiuso
in pesante perdita gli ultimi esercizi. “Speriamo che
dopo le politiche non si voti per un po’. E che il prossimo governo faccia una
manovra correttiva dando finalmente priorità al risanamento dei conti”. Come ha
ricordato il vicepresidente della Commissione Jirki Katainen, in ballo c’è
anche il futuro del nostro welfare.
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