lunedì 2 marzo 2020

La tortura e le altre piaghe d’Egitto oltre i casi Zaki e Regeni





Arresti di massa e senza mandato, interrogatori con sputi, pugni, scosse elettriche sui genitali e unghie strappate. Mentre anche la stampa e le Ong sono nel mirino della legge. Così il governo al-Sisi porta avanti la legalizzazione della repressione. Mentre l'Onu si interessa solo di facciata. E anche l'Italia rimane incoerente.

Non solo Giulio Regeni, non solo Patrick George Zaki. Nelle carceri egiziane le torture sono diventate il metodo sistematico utilizzato nei confronti di chi si ritiene, senza alcuna prova concreta e dopo soltanto dei processi sommari, un «nemico politico».

LE STIME: 60 MILA PRIGIONIERI POLITICI
Le ultime stime – negate dal governo di Abdel Fattah al-Sisi e ritenute invece al ribasso da diversi Organizzazioni non governative – parlano di 60 mila prigionieri politici. Non solo. Come spiega a Lettera43.it il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, «dal 2014 una sessantina di prigionieri arrestati non hanno più visto i propri familiari. E oltre 700 persone sono morte per diniego di cure mediche, come nel caso dell’ex presidente Mohamed Morsi. Anche tale diniego è ufficialmente riconosciuto come “tortura” dal 2017».

ARRESTI CON RAID E SENZA ALCUN MANDATO
Ma sono le modalità di detenzione, quasi scientifiche, che lasciano senza parola. A rivelarle è stato un recente e dettagliato rapporto di Human Rights Watch che parla, non a caso, di «catena di montaggio», in base alle testimonianze di ex detenuti. Nonostante la legge
egiziana precisi che gli agenti di polizia non possono «arrestare, detenere o limitare la libertà di nessuno in alcun modo se non in virtù di un ordine giudiziario motivato richiesto nel contesto di una investigazione», a nessuno degli intervistati dall’Ong questo trattamento è stato garantito. Nella maggior parte dei casi sono stati arrestati in raid mattutini a casa loro o in luoghi mirati (posto di lavoro o università), senza alcun mandato e con agenti spesso in abiti civili.

GLI ABUSI COMINCIANO NELLE STAZIONI DI POLIZIA
Ma siamo solo all’inizio. Dopo aver trasportato il sospettato spesso bendato e legato, gli abusi cominciano già nelle stazioni di polizia, dove gli interrogatori si alternano a sputi, offese, minacce, in un crescendo che porta il detenuto a essere nudo e in posizioni di stress. Se non si ottiene una confessione, vera o falsa che sia, comincia la vera tortura. Secondo le testimonianze raccolte da Human Rights Watch gli agenti di sicurezza nazionale utilizzano spesso una pistola stordente elettrica in luoghi sensibili come l’orecchio o la testa. E poi schiaffi, pugni, percosse con barre di metallo.

SCOSSE ELETTRICHE ANCHE SUI GENITALI
Tutte pratiche che caratterizzano l’ormai tristemente nota Tashrifa, «festa di benvenuto» in arabo. «Se il sospettato non fornisce risposte soddisfacenti», continua il report, «gli agenti di sicurezza aumentano la durata delle scosse elettriche e usano la pistola stordente su altre parti del corpo del sospettato, includendo quasi sempre i suoi genitali. Durante gli interrogatori in alcuni casi si sostituiscono le pistole con fili elettrici».

MESSI A TESTA IN GIÙ E VIOLENTATI
Nel caso in cui non si ottiene la sperata confessione, le torture peggiorano. Si va dalla sospensione a testa in giù, appesi a una corda e il continuo stordimento con la pistola elettrica fino ai colpi ai genitali con mazze di ferro. Ci sono testimonianze che parlano anche dell’utilizzo di materassi inumiditi e collegati all’elettricità col detenuto ammanettato e steso sopra. A Fayoum, secondo altri resoconti, ci sarebbe una “Camera infernale” in cui le pratiche diventano ancora più dure: dagli abusi sessuali, di gruppo o con mazze di ferro, fino allo choc elettrico sui denti del giudizio per far sanguinare le gengive.

IL CASO DEL 18ENNE CON LE UNGHIE STRAPPATE
Non viene tralasciato nessuno, neanche i più giovani. Karim (nome di fantasia) è stato arrestato a soli 18 anni per aver partecipato a una protesta nel suo villaggio rurale alle porte del Cairo. Durante i primi giorni di tortura, accanto a percosse e stordimenti, gli sono state strappate con le pinze e addirittura con morsi le unghie delle dita. «Gli ufficiali», continua il report, «hanno tenuto Karim nella sua cella per altri tre o quattro giorni prima di farlo uscire di nuovo. Gli fecero fatto domande su dove abitavano i suoi amici. Karim affermò di non ricordare dove abitavano e disse che non avrebbe aiutato la polizia a trovarli. “Bene, ok”, disse un uomo. “Portalo in frigo”».

LA STANZA DEL FREDDO E LA CELLA DI 1,5 METRI PER 3
La polizia ha messo allora Karim in una piccola stanza dove sembrava che fossero in funzione due condizionatori d’aria: faceva molto freddo e la polizia ha tenuto Karim lì per circa un giorno vestito di sole mutande. «Successivamente, riportarono Karim nella sua cella, che misurava circa 1,5 per 3 metri, per circa 15 giorni».

TEMA DEI DIRITTI UMANI AFFRONTATO SOLO DI FACCIATA
Quello che sta accadendo in Egitto, dunque, è una continua legalizzazione della repressione. E poco hanno fatto anche le istituzioni internazionali: «Il tema del rispetto dei diritti umani», spiega Noury, «è affrontato solo di facciata. Nel 2019 addirittura l’Onu avrebbe voluto organizzare la conferenza mondiale contro la tortura proprio in Egitto. Solo grazie all’impegno di diverse Ong siamo riusciti a evitare tale assurdità».

STAMPA E ONG NEL MIRINO DI AL-SISI
E nel frattempo sono tante le leggi draconiane approvate nel corso degli anni. Nel 2017 è stato varato un provvedimento che consente alle autorità di negare il riconoscimento delle Ong, di limitarne attività e finanziamenti. Nel 2018 è toccato a leggi sui mezzi d’informazione, che hanno esteso ulteriormente i poteri di censura sulla stampa: da allora si stima che le autorità egiziane abbiano bloccato almeno 513 siti web. Una serie di emendamenti controfirmati da al-Sisi già nel 2017 ha poi conferito alle autorità il potere di eseguire arresti di massa. E in questo ha giocato un ruolo-chiave la procura suprema per la sicurezza dello Stato, responsabile delle indagini sulle minacce alla sicurezza nazionale. Non a caso, dalla salita al potere di al-Sisi, il numero dei casi trattati dalla Procura suprema è aumentato di tre volte: da 529 nel 2013 a 1.739 nel 2018.
E anche l’Italia, davanti a questi numeri, preferisce tacere: «L’atteggiamento del nostro Paese continua a essere incoerente», dice Noury. «I rapporti economici sono sempre più floridi specie nel settore delle armi e in quello energetico. Però poi si continua a pretendere che si faccia il massimo per la verità sulla morte di Giulio Regeni. Se gli interessi umani avessero prevalso su quelli economici, la verità sarebbe già venuta fuori».

Nessun commento:

Posta un commento