mercoledì 25 marzo 2020

Il “dopo” non potrà più essere come il “prima”, così ingiusto e diseguale


da: Il Fatto Quotidiano - di Alessandro Robecchi

Le retoriche del “dopo” fanno bene al cuore. “Dopo” torneremo ad abbracciarci, a tornare là fuori, “dopo” riavremo le nostre vite sequestrate, “dopo” torneremo al gusto del caffè del bar, delle chiacchiere a distanza ravvicinata, del contatto fisico, delle strade piene. È giusto che sia così, giusto che ci sia un orizzonte, un tendere al futuro, un desiderio forte di passare la nottata, domani è un altro giorno. Dai, coraggio, avanti. Dopo, dopo, dopo.

Ma siamo sicuri che il “dopo” – quando arriverà – debba essere uguale al “prima”? Che questa piaga biblica non ci stia disegnando, con precisione quasi millimetrica, storture, furbizie, ingiustizie strutturali, diseguaglianze sociali accettate come naturali e immutabili? La catastrofe amplifica, precisa i contorni, rende tutto più visibile, cristallino. A metterle in fila, le inadeguatezze, le furbizie, i calcoli cinici, c’è da riempirci un volume, si oscilla tra un senso di comunità in pericolo (ora che la comunità è chiusa in casa) e la voglia di ghigliottina, di segnarsi i nomi, i comportamenti, le dichiarazioni, a futura memoria. Per “dopo”.

Così, con lo stesso inquieto pendolarismo che ci fa fare migliaia di volte il tragitto camera-cucina, presi dall’horror vacui della giornata che ci si apre davanti, mettiamo confusamente in fila la lista delle ingiustizie. Il tampone agli asintomatici che è ormai uno status symbol come la Porsche in garage (sì ai calciatori, sì ai vip, no ai medici in trincea, possibile?). 

Le speculazioni politiche di bassa lega (Lega), come il vergognoso Salvini travestito da sanitario, gli industriali che resistono alle chiusure ma in fabbrica non ci vanno, le miserabili riflessioni ultraliberiste (memorabile un articolo su Il Foglio) che ci spiegavano perché è giusto che le mascherine seguano la “naturale” dinamica dei prezzi, perché il mercato sistema tutto, che vergogna. E anche i conti finalmente chiariti su chi, come, quando, in che misura ha martoriato la Sanità pubblica in questi anni, nomi e cognomi. Chi lo diceva prima, al momento dei tagli, era dipinto come un nemico, un sovversivo (le mille varianti mettetele voi, comunista, gufo, disfattista, costruttore di debito pubblico…), ora troviamo quelle cifre – i tagli di Silvio, di Monti, di Renzi – messe in fila con dovizia di dettagli.

Scappati i buoi si guarda con desolazione alle porte della stalla, e lo fanno anche giornali, e media, e forze politiche che prima non facevano un fiato, che a ogni sforbiciata esultavano per la coerenza di bilancio: ce lo chiede l’Europa, ce lo chiedono i mercati, e giù ticket, e riduzioni di prestazioni, e limiti agli esami, e meno posti letto, e meno terapie intensive, e meno ospedali locali, e numeri chiusi a medicina, che qui vogliono fare tutti il dottore, signora mia.
Saranno anche categorie antiche, novecentesche, ma siccome ci scopriamo disarmati a non averne di migliori, ecco che tocca constatare: anche il virus è di classe, e lo si vede ogni giorno nei piccoli dettagli dell’infamia corrente, quasi un campionario. Le case piccole in cui convivere, i soldi che mancano perché arrivano dal cottimo, il poderoso esercito dei lavoratori in nero (moltitudine) che non avranno ammortizzatori, i lavoratori spaventati sia dalla costrizione a lavorare sia dal fermarsi.

“Dopo”, nell’ubriacatura dell’essere di nuovo vivi, dovremo ricordarci che quel “prima” che oggi ci manca non andava bene, era fragile e ingiusto, era troppo diseguale, schiacciava i deboli e premiava i forti. Nel “dopo” ci dovremo mettere anche tutto questo, un ridisegnare complessivo del sistema, delle protezioni sociali, e sarà importante quanto lo è la voglia di tornare là fuori, di riabbracciarci, di bere il caffè al bar. Il “dopo” non arriverà soltanto, lo si dovrà costruire con le nostre mani finalmente senza guanti, dopo.

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