mercoledì 25 settembre 2019

Microtasse e microbonus sono inutili, serve una vera riforma fiscale o saranno guai


da: https://www.linkiesta.it/it/ - di Stefano Cingolani

In settimana il ministro Gualtieri presenterà la nota di aggiornamento al Def. Il rischio che la maggioranza disomogenea lo imbrigli è alto, ma al Paese serve un piano triennale e il sostegno degli investimenti privati

S’avvicina per Roberto Gualtieri la prima prova del fuoco. Entro venerdì deve presentare la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (chiamata Nadef a palazzo Sella e dintorni). In sostanza è un malloppo tecnico che fornisce la cornice macroeconomica entro la quale andrà disegnata, dal prossimo mese, la legge di bilancio che contiene la cosiddetta manovra. Il rischio di partire con il piede sbagliato è molto forte, se sono vere le anticipazioni di stampa su questa pioggerella di microtasse sulle merendine, sulle bibite gassate, sulla refezione o sui viaggi aerei, per rastrellare una manciata di miliardi. Forse sono le solite chiacchiere che deliziano i mass media tra agosto e settembre, speriamo che in effetti sia così.
Le macro cifre contenute nella nota non dovrebbero rivelare sorprese. La crescita è minima (la Ue dice 0,1% quest’anno e 0,7% nel 2020), il disavanzo pubblico al netto di correzioni viaggia verso il 2,5% e il debito pubblico supera il 134% del prodotto lordo. Da quel che si capisce, per mantenere un obiettivo di disavanzo pari al 2% del prodotto lordo, così come già delineato e promesso di fatto all’Unione europea, bisogna
recuperare lo 0,9% del pil pari a 16 miliardi di euro. Poi occorre trovare almeno altri dieci miliardi per far fronte a tutte le promesse già in campo: taglio al cuneo fiscale, sussidi a famiglie e imprese, nuove risorse per il welfare state, la pubblica istruzione e tutto il resto. In questo modo, la pressione fiscale, ben che vada, resterebbe al 42% del reddito, senza nessun vero incentivo alla crescita. Allora tutto cambia perché nulla cambi?

Negli ultimi cinque anni la politica di bilancio ha distribuito in bonus, mance varie e misure assistenziali ben 90 miliardi di euro, secondo i calcoli di Carlo Cottarelli, pubblicati dalla Stampa. Una bella cifra che non è riuscita a cambiare nulla. La lista dei provvedimenti è davvero impressionante: buono scuola, assunzioni degli statali, bonus cultura, spese per la famiglia, via l’Imu sulla prima casa, riduzione Ires, detassazione dei premi produttività, esclusione dall’Irap del costo del lavoro, bonus degli 80 euro, flat tax per le piccole partite Iva, senza contare il reddito di cittadinanza e le pensioni anticipate a quota 100. Tuttavia questa pioggia assistenziale non è servita né a rilanciare l’economia né a migliorare l’umore degli italiani. Il governo giallo-rosso vuole davvero continuare con il solito tran tran oppure è in grado di rovesciare l’ordine dei fattori? E come?

Uno dei cavalli di battaglia della premiata coppia Alesina & Giavazzi è che la politica fiscale più efficace consiste nel ridurre le imposte a inizio legislatura, o comunque quando comincia un nuovo ciclo politico. Il rischio è che il deficit pubblico peggiori fino a sfondare il fatidico tetto di Maastricht, cioè il 3% del prodotto lordo. Certo, si potrebbe accompagnare questa operazione con un corrispondente taglio della spesa pubblica corrente ed è quello che i due economisti preferiscono. Tutti i governi amano sostenere che ormai si raschia il fondo del barile, eppure anche volendo solo raschiare, il barile contiene sempre 800 miliardi e passa di euro. In ogni caso, quest’anno un taglio robusto alle spese non sarebbe prudente perché l’economia sta scivolando verso la recessione e c’è il rischio che la manovra divento pro-ciclica, cioè peggiori la caduta anziché arrestarla. Dunque il pericolo 3% esiste, eccome; ma mettendo sul tavolo una seria riforma fiscale si potrebbe cominciare su basi nuove una seria discussione a Bruxelles e a Francoforte, cioè con la commissione Ue e con la Bce.

Ai guardiani dei conti (al “falco” lettone Valis Dombrovskis si è aggiunta la "colomba" italiana Paolo Gentiloni) si può (anzi si dovrebbe) presentare un intervento con un cadenza triennale. Un primo shot va sparato subito per stimolare il ciclo, i due anni successivi saranno dedicati ad aggiustare i conti e tornare sul sentiero che porta all’equilibrio, agendo dal lato della spesa, ma con il sollievo di una crescita, sia pur moderata, del pil. Nulla di rivoluzionario, niente che comprometta la virtù fiscale, ma un uso intelligente di quella flessibilità che oggi è possibile grazie a un mutamento politico e culturale nei principali paesi dell’Unione, soprattutto in Francia e nella stessa Germania la quale è sotto pressione anche da parte della Bce affinché allarghi i cordoni della borsa. È quel che ha detto Mario Draghi davanti al parlamento europeo, è quel che ha predicato Christine Lagarde quando era al Fondo monetario internazionale.

Esiste uno spazio di manovra, sbaglierebbero Gualtieri e Giuseppe Conte se lo utilizzassero per la usuale ed estenuante contrattazione sullo zero virgola in più o in meno. Alla Bce e alla Ue il ministro dell’economia dovrebbe dire che lo stimolo non può venire solo dai Paesi in grado di spendere (cioè la Germania perché gli altri sono troppo piccoli e la Francia spende già parecchio), ma bisogna sostenere la domanda interna in tutte le grandi economie europee, agendo dal lato degli investimenti, soprattutto privati, e non solo pubblici come si sente ripetere. L’intera Europa è in una stagnazione che potrebbe davvero essere di lungo periodo. Anni di tassi d’interesse negativi senza un propellente per la crescita logorano il risparmio, con una popolazione che invecchia, si chiude in se stessa e rifiuta l’immigrazione, finiremo come il Giappone. Anzi peggio, perché l’Europa, disomogenea e conflittuale com’è, finirebbe per disgregarsi; non solo la Ue, ma l’intero continente. Brexit docet.

Gli investimenti ristagnano perché manca la fiducia e perché, in particolare in Italia, sono soffocati da imposte troppo alte sul lavoro e da una vera e propria giungla fiscale. Lo ha denunciato Ignazio Visco nelle sue ultime considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia. Tutti lo hanno ascoltato, ma sembra che nessuno abbia fatto caso a un intero paragrafo che, invece, il governatore considera il suo messaggio di politica economica.

«Il Paese - ha detto Visco - ha bisogno di un’ampia riforma fiscale. Dai primi anni Settanta del secolo scorso sono state introdotte nuove forme di tassazione ed è stato progressivamente definito un complesso insieme di agevolazioni ed esenzioni, nell’assenza di un disegno organico e con indirizzi non sempre coerenti. Rivedendo solo alcune agevolazioni o modificando la struttura di una singola imposta si proseguirebbe in questo processo di stratificazione. Bisogna invece interromperlo, per disegnare una struttura stabile che dia certezze a chi produce e consuma, investe e risparmia, con un intervento volto a premiare il lavoro e favorire l’attività di impresa, tenendo conto delle interazioni tra tutti gli elementi del sistema fiscale».

Allora, il 31 maggio scorso, i più lo hanno inteso come una critica alla flat tax salviniana, impostata come un’altra imposta che avrebbe reso più fitta la giungla, però vale anche per le merendine o per tutti i balzelli che venissero introdotti, sia pure per ragioni virtuose (come la lotta al riscaldamento climatico o all’obesità infantile). Visco preferisce un intervento volto ad alleggerire il peso sul lavoro, ma anche tagliare il cuneo fiscale come vorrebbe il governo e come chiedono con forza sindacati e Confindustria, fuori da un disegno organico, finisce per essere una pecetta, un cerottino su una ferita che continua a sanguinare. Ridurre le imposte nel modo indicato dalla Banca d’Italia, come nessuno ha mai fatto prima, non per togliere argomenti e spazio di manovra a Salvini, non per farsi belli con l’Unione europea e con la Bce, non per accontentare le lobby, i gruppi di interesse, i ceti di sostegno (i lavoratori dipendenti per i giallo-rossi, le partite Iva per i giallo-verdi e soprattutto per la Lega), ma per dare una vera svolta. Non è questa la discontinuità?

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