mercoledì 25 settembre 2019

Gianrico Carofiglio: La versione di Fenoglio / 3



Un giorno ci chiamarono dalla sala operativa per un sospetto omicidio.
La vittima era un medico della mutua - così si diceva allora - che non era rientrato a casa come faceva di solito verso le tredici, terminate le visite della mattina. La moglie si era preoccupata perché pare che l’uomo fosse molto abitudinario e puntualissimo. Lo aveva cercato al telefono, senza ricevere risposta. Allora aveva avvertito la figlia e insieme erano andate all’ambulatorio. Il dottore era cardiopatico e temevano un malore, un infarto.
Lo avevano trovato morto, sul pavimento dietro la scrivania. E lì lo trovammo anche noi.
La causa del decesso appariva chiara anche solo a un primo sguardo, poiché il cranio era parzialmente sfondato. Però non c’erano segni evidenti di una colluttazione: la scrivania era in ordine, a parte un lume da tavolo rovesciato, e a prima vista non sembrava che fosse stato sottratto nulla. In ogni caso, non era una faccenda di cui dovessimo o potessimo occuparci noi del radiomobile. Più precisamente, non erano cazzi nostri, come disse il mio nuovo compagno di pattuglia. Un tizio biondastro, con un’acne tardiva, cui piaceva picchiare la gente e che non pagava nei bar in cui ci fermavamo a prendere il caffè o a fare colazione.
Poco dopo arrivarono quelli del nucleo operativo. Toccarono tutto senza guanti; spostarono oggetti e li rimisero più o meno a posto. Aprirono la finestra. Un grave errore, poiché si altera la temperatura corporea del cadavere complicando la rapida ricostruzione dell’ora della morte. Allora non lo sapevo, in realtà, lo avrei imparato negli anni successivi, ma l’intera azione, nella sua sciatteria, mi rimase impressa, fotogramma per fotogramma. In seguito l’ho ripassata tante volte come se fosse un manuale al contrario: quello che non si fa quando si arriva sulla scena di un crimine.

Poi comparvero quelli delle investigazioni scientifiche. Fecero fotografie, spennellarono dappertutto polvere per le impronte digitali e si lamentarono che ce n’erano troppe. Anche quelle dei carabinieri, pensai io. Lo pensai così intensamente che fui lì per dirlo. Me ne stavo davanti alla porta, guardavo tutto, cercavo di registrare tutto e mi chiedevo cosa potessi escogitare per inserirmi nell’indagine. Per due volte mi morsi le labbra. Naturalmente sapevo che, se avessi provato a dire la mia opinione, come minimo mi avrebbero risposto in malo modo di stare zitto.
Un giovane vicebrigadiere in servizio da meno di un anno che interviene a dire la sua opinione durante un sopralluogo di polizia giudiziaria è uno che non sa come va il mondo.
Arrivò il capitano comandante del nucleo operativo. Arrivò il colonnello comandante del reparto operativo. Arrivarono anche alcuni poliziotti con il capo della squadra mobile, ma era solo una visita per dare un’occhiata, per informarsi dell’accaduto. Secondo la regola non scritta che disciplina queste cose, le indagini su un omicidio spettano alla forza di polizia che per prima arriva sul luogo del delitto. Quindi l’uccisione del medico - non so perché non riesco a ricordarne il nome - spettava a noi carabinieri.
Cioè a loro del nucleo operativo.
Alla fine arrivò anche il sostituto procuratore di turno. Un uomo giovane, basso e magrolino, con degli strani capelli rossi, probabilmente un magistrato di prima nomina. Cercava di comportarsi come uno che sa il fatto suo e proprio per questo mi diede l’impressione di essere fuori posto.
Aspettarono tutti insieme il medico legale, il quale, dopo un rapido esame del cadavere, confermò ciò che già si sapeva, cioè che la morte risaliva a qualche ora prima. Ogni altra affermazione su cause, tempi, circostanze del decesso avrebbe richiesto l’autopsia.
Il sostituto procuratore, con il tono di chi ha appena preso una decisione motivata e difficile, autorizzò il trasporto del cadavere all’obitorio. Poi si allontanò assieme a quelli della polizia. Poco dopo andarono via anche i nostri ufficiali. Il capitano diede disposizione ai suoi uomini di parlare con gli inquilini del palazzo e i negozianti dei dintorni. Bisognava capire quali assistiti avesse visitato il dottore quella mattina, e sentirli. E soprattutto bisognava procedere a una retata di tossici della zona, portarli in caserma e torchiarli per bene.
Mentre i vari marescialli e brigadieri si attivavano, i necrofori rimossero il corpo. Io fui lasciato lì a piantonare la scena (la macchina di pattuglia con cui ero arrivato era già andata via) in attesa di altro personale che sarebbe venuto a repertare l’agenda, l’elenco dei mutuati e ogni altro documento utile.
Uscendo, un maresciallo anziano mi disse, col tono di chi sta facendo una buona battuta: - Naturalmente non toccare niente, eh?
Così rimasi solo.
Fu una sensazione difficile da descrivere. Adesso che non c’era più nessuno, che non c’erano più le voci, si poteva ascoltare il silenzio, popolato di piccoli rumori insignificanti.
Soprattutto si percepiva lo spazio vuoto lasciato dal cadavere. Era come la presenza di un’assenza, un vuoto concreto e indelebile. Quando ebbi familiarizzato con quella strana atmosfera, decisi di seguire un mio sopralluogo. Era la prima volta che disobbedivo in maniera deliberata e senza imbarazzi all’ordine di un superiore.

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