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Marco Carta
“Dall’uomo più potente in tre giorni
divento il più coglione”, diceva Raffaele Marra in una delle telefonate
intercettate dalla Procura. L’ex direttore del personale capitolino, arrestato
ieri con l’accusa di corruzione, temeva, in piena estate, che le polemiche sul suo conto potessero frenare
la sua folgorante ascesa in Campidoglio. E in qualche modo profetizzava la
fine. La sua, come quella del resto del “raggio magico”, il nucleo di
fedelissimi attraverso cui Virginia Raggi avrebbe voluto governare Roma.
Perché
per andare avanti, e mantenere il simbolo del Movimento
5 Stelle, la sindaca ora dovrà fare a meno dei suoi principali “alleati”. “Sono
stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto – ha scritto Beppe Grillo
– si è fidata delle persone più sbagliate del mondo”. Da Salvatore Romeo, il funzionario
capitolino che dopo essersi messo in
aspettativa è stato reinquadrato nella segreteria politica con un compenso
triplicato (da 39mila euro a 120mila euro, ridotti poi a 93mila). Fino al vicesindaco Daniele Frongia, che
proprio negli anni di opposizione aveva costruito un rapporto di fiducia con Marra.
proprio negli anni di opposizione aveva costruito un rapporto di fiducia con Marra.
La
loro rimozione dai luoghi decisionali del Campidoglio è
la condizione preliminare che Beppe Grillo ha posto alla sindaca, oltre
alla due diligence di tutti gli atti
finora approvati. Poi, per il futuro, meno autonomia sulle nomine e sulle
scelte più importanti. Il rischio per
Virginia Raggi di essere relegata a
semplice “taglianastri”, come vorrebbe la frangia più oltranzista, è più
che concreto. Per questo, prima di
cedere alle richieste, ha sondato senza successo la disponibilità dei
consiglieri capitolini ad andare avanti
senza il marchio di “fabbrica”.
“Non
mi riconosco più in questo Movimento 5 stelle”,
avrebbe inutilmente detto ai suoi, per poi capire di essere isolata, almeno ai
piani alti, e accettare la rimozione del caposegreteria Romeo e il
demansionamento di Frongia, non più vicesindaco, ma semplice assessore allo
sport. Luigi di Maio, che per mesi l’aveva difesa dagli attacchi di
Roberta Lombardi, da ieri siede come lei sul banco degli imputati per la
gestione della vicenda romana e stavolta non ha potuto far nulla. Al vicepresidente della Camera erano già
state “perdonate” le sviste sul caso
Muraro, per questo non ha potuto che incassare silenziosamente,
preoccupato soprattutto dai possibili sviluppi dell’inchiesta su Raffaele
Marra. Il timore è che nelle tante telefonate intercettate possa
incidentalmente uscire fuori il suo nome, ponendo fine ad ogni sogno di gloria.
Se ancora ce ne fossero.
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