da: Il Fatto Quotidiano
Il patto per confermare i
vertici di Eni, Enel e Poste
Il
nuovo premier è il garante della stabilità. Saranno confermati i vertici degli
enti: anche di quello petrolifero, nonostante l’inchiesta sull’ad Descalzi. Fuori
Moretti (Finmeccanica) a rischio condanna.
di
Stefano Feltri e Carlo Tecce
C’è chi dice che sia stato prodotto anche un
documento, un “patto Gentiloni” con tutti i nomi, parte cruciale del processo
di scelta del nuovo premier. Ma quello che conta è la sostanza: il nuovo
assetto politico ha un esito quasi inevitabile, la riconferma dei principali capi
azienda delle società controllate dallo Stato, soprattutto Eni, Enel e Poste. Paolo
Gentiloni è il garante di uno status quoche si regge su equilibri addirittura rafforzati
dal provvisorio passo di lato di Matteo Renzi.
In primavera scadono i vertici delle
partecipate pubbliche nominati dall’ex premier nel 2014, con una sorprendente rottura
rispetto alla linea concordata da un altro premier transitorio, Enrico Letta
che, proprio come Gentiloni, avrebbe dovuto essere il garante della continuità.
I potentissimi Fulvio Conti (Enel) e Paolo
Scaroni (Eni) erano sicuri della conferma, appena arrivato, invece, Renzi li ha
licenziati nell’unica rottamazione che ha davvero portato a termine,
sostituendoli con Francesco Starace e Claudio Descalzi.
Il caso dell’Eni è come sempre quello più
delicato. In tanti si aspettavano già prima dell’estate l’avviso di conclusione
indagini per l’inchiesta sulle presunte tangenti girate intorno al
maxi-giacimento Opl 245 in Nigeria.
Il deposito degli atti è atteso nelle
prossime settimane: Descalzi è indagato per corruzione internazionale e tutti
si aspettano la richiesta del rinvio a giudizio firmata dal pm Fabio De
Pasquale.
I professionisti delle nomine che si sono
mossi nell’ombra durante la crisi di governo hanno fatto due conti. Una volta
arrivata la richiesta di imputazione, gli indagati chiederanno di avere il
tempo necessario per analizzare le migliaia e migliaia di pagine depositate (da
mesi c’è molta curiosità soprattutto sulle intercettazioni telefoniche). La
partita delle nomine si decide a metà aprile, quando il ministero del Tesoro
deve presentare le liste per il consiglio di amministrazione, ma l’eventuale rinvio
a giudizio per Descalzi e gli altri manager di prima fascia indagati
arriverebbe soltanto soltanto a cose fatte. E così il governo Gentiloni eviterebbe
anche l’imbarazzo di dover confermare un imputato al vertice: nel 2014 Renzi
aveva avallato la modifica drastica degli statuti delle partecipate che vietava
la nomina di manager rinviati a giudizio o li faceva decadere. Norma bocciata in
assemblea proprio da Eni, con il Tesoro in minoranza, e che poi Enel ha
cancellato, dopo averla introdotta.
Descalzi sarebbe salvo: il suo unico vero
concorrente rimasto, Marco Alverà (ex delfino di Paolo Scaroni in Eni e oggi ad
di Snam) si è da tempo rassegnato ad attendere il prossimo giro o la
conclusione della vicenda processuale di Descalzi.
Anche la conferma di Emma Marcegaglia pare
garantita dal “patto Gentiloni”: Renzi si era molto risentito di non
essere stato avvisato dai
suoi informatori della condanna subita dal fratello dell’ex presidente di Confindustria,
Antonio, che nel 2008 ha patteggiato 11 mesi con la condizionale per
corruzione. L’accusa era di aver pagato a Lorenzo Marzocchi del gruppo Eni una
mazzetta da un milione e 158 mila euro per agevolare l’assegnazione di un
appalto.
Renzi forse l’avrebbe sostituita, ora con
Gentiloni la Marcegaglia può stare più tranquilla. Così come Francesco Starace:
l’ad dell’Enel ha avuto una breve ma intensa fase di centralità nel cosmo renziano,
quando ha sostituito Telecom nei desideri di politica industriale dell’ex
premier offrendo un ambizioso piano per la costruzione della banda larga,
sostenuto da fantomatiche sinergie con il business elettrico tradizionale.
I miracoli di quel piano sono tutti da
verificare, ma il governo Gentiloni dovrà assicurare un altro mandato a Starace
(alcuni estimatori renziani, nel momento dei grandi annunci, lo vedevano già
all’Eni). E con lui si salverebbe anche la presidente, Patrizia Grieco. Nel
“patto Gentiloni” c’è anche Francesco Caio, l’ad di Poste Italiane, un altro
che con la vittoria del Sì (per la quale ha fatto la sua parte, con le Poste
impegnate a far arrivare milioni di opuscoli di propaganda agli italiani, con
tariffe ridotte per il Pd) quasi certamente avrebbe cercato un’altra posizione:
la sintonia con l’ex premier non c’è mai stata, i rapporti con il presidente
Luisa Todini sono da sempre complicati, la missione della quotazione è ormai
conclusa.
Ma anche gli assetti di potere del nuovo
governo valgono un secondo triennio in Poste per Caio, per non turbare il
quadro generale. L’unica
eccezione al progetto di stabilità rischia di essere Mauro Moretti:
sull’amministratore delegato di Finmeccanica incombe la possibile condanna per
la strage di Viareggio, a settembre il pm servirebbe a legittimare
l’allontanamento di un manager che, dopo una carriera passata a cementare il
monopolio delle Ferrovie dello Stato, ha provato ad applicare lo stesso stile
gestionale a un’azienda complessa come Finmeccanica (con lui sta cambiando nome
in Leonardo), ma il compito si è rivelato più arduo del previsto e i risultati
incerti. La sua ruvidezza non è apprezzata dai clienti del gruppo.
Il “Patto
Gentiloni” sulle nomine è piuttosto preciso. Ma ha un grosso limite: è stato
definito molti mesi prima delle delle scadenze ed è garantito da un soggetto – Matteo
Renzi – che ora è lontano da Palazzo Chigi. In molti si chiedono quanta presa
avrà ancora su equilibri che finora dominava al punto da inserire nei cda di
grandi gruppi figure come il suo avvocato (Alberto Bianchi, Enel) o i suoi
primi finanziatori (Fabrizio Landi, Finmeccanica).
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