La nostra anima è vulnerabile, soggetta a depressioni immotivate, penosamente in balia di ogni genere di cose, e di esseri altrettanto fragili e capricciosi. La nostra persona sociale, da cui dipende quasi il sentimento dell’esistenza, è costantemente e interamente esposta al caso». Queste parole di Simone Weil ci introducono bene al tema della vulnerabilità, una dimensione strettamente legata alla fragilità. Ne parlerò tra poco. È una consapevolezza che, presa sul serio, aiuta a cambiare molti convincimenti e pregiudizi.
L’archeologo americano Ralph Solecki, dopo aver scoperto in Iraq lo scheletro di un uomo neanderthaliano che mostra segni di gravi disabilità, ritiene che la fragilità sia nel cuore stesso dell’evoluzione. La sua esclusione dal gruppo era sentita già da allora insopportabile: se ne son presi cura. Questa scelta, contraria all’utilità dell’evoluzione semplicemente biologica, spinge ad una riflessione più attenta sulla fragilità come fonte di solidarietà.
Certo, non tutti gli oggetti fragili sono preziosi, così come, al contrario, non tutti gli oggetti preziosi sono necessariamente fragili: tra i due estremi, cioè tra una fragilità che sfuma nell’ordine dell’irrilevanza e una preziosità che s’afferma nell’ordine del valore infinito, al riparo da qualsiasi insidia, in mezzo, potremmo ripetere con Pascal, «c’è solo la vita», in cui prezioso e fragile si incontrano in una unicità irripetibile. Sono del vivente, di quel particolare essere vivente in cui coabitano il limite della ferita; il fragile e il prezioso diventano attributi inseparabili: l’aut aut si annuncia come et et, senza essere tuttavia il risultato di una congiunzione accidentale. La fragilità, in particolare, non rappresenta un attributo estrinseco,
che pesa in senso avversativo (prezioso ma fragile) né propriamente in senso successivo (prezioso sebbene fragile) assumendo, al contrario, una centralità strategica nell’endiadi, che finisce per capovolgere la relazione: fragile dunque prezioso.
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