La condizione di fragilità – che pure tentiamo sempre di rifiutare – conferisce all’umano anche una particolare grazia, una sua straordinaria preziosità. Possiamo dire che rappresenta un paradosso. Nella mentalità comune, la fragilità è l’immagine della debolezza e quindi di una condizione negativa, persino dannosa. In realtà, come ho poco prima accennato, nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita e che consentono di immedesimarci con più facilità negli stati d’animo e nelle emozioni degli altri. È sbagliato perciò considerarla solo come un «difetto», una mancanza di completezza. C’è un legame singolare tra fragilità e preziosità a partire dal piano biologico. Pensiamo al cervello: è costituito da circa 100 miliardi di cellule (neuroni) connesse tra di loro, in continuo dialogo. È un insieme fragilissimo e preziosissimo. Così, pure il prendersi cura significa un modo attento di vivere il rapporto con gli altri, fatto appunto di delicatezza e di premura, tanto tali legami sono fragili. È un modo di relazionarsi diverso dal dominio e dal contratto. Prendersi cura significa compromettersi con l’altro, «sopportarlo» nel senso attivo di sollevarlo, di prenderlo in braccio. È il senso di compiere un gesto di eccedenza rispetto alla logica utilitaristica. L’essere umano ha bisogno degli altri, non solo in momenti particolari, ma sempre, per tutto l’arco dell’esistenza, dalla nascita alla morte.
Tutti gli aspetti dell’esistenza creaturale sono segnati dalla fragilità: non solo gli uomini, ma tutte le creature; non solo il corpo, ma anche lo spirito, i pensieri, le parole, i sentimenti.
Siamo impastati di fragilità, di polvere, si potrebbe dire, richiamando il racconto biblico della creazione. L’autore sacro per indicare la creazione dell’uomo da parte di Dio usa il termine «plasmare», lo stesso che veniva usato per descrivere l’attività del vasaio che, con arte, crea qualcosa di bello, ma allo stesso tempo fragile. Questa dualità intesse l’intero racconto. Il termine «Adam» etimologicamente significa il «terroso», ma nel quale Dio soffia un alito di vita. E diviene Adam. L’uomo, insomma, è descritto come polvere, terra, indicando così il suo statuto vulnerabile e, contemporaneamente, come alito di Dio per indicarne l’eternità. Fragilità ed eternità, terrestrità e forza divina si articolano in ogni essere umano. E, si badi bene, chi scatena la crisi nel «giardino» della vita non sono l’uomo e la donna ma «il più astuto di tutti gli animali» (Gen 3,1). È il serpente che sollecita i due a non accettare il limite (l’essere «terrosi») ma a cogliere «l’eterno» che è in loro per spodestare Dio. È l’apparire della hybris dell’onnipotenza. Ed è l’obbedienza a tale hybris che li fa scoprire, con amarezza, «nudi» (fragili) e senza più il giardino. Dio comunque non li abbandona, ha compassione di loro e, mentre escono da quel giardino per entrare nella storia, li «veste» perché non sentano il freddo che debbono affrontare.La fragilità – suggerisce il testo sacro – va accolta e vissuta sensatamente. Solo così se ne coglie la potenzialità, se legata, ovviamente, al mistero di Dio per chi crede o al mistero dell’amore per tutti, anche per chi non crede. Non posso dilungarmi su questo, ma la pagina biblica avverte anche noi, uomini e donne di questo tempo, circondati dall’onnipotenza della tecnica che spinge sino a immaginare una immortalità che sgorga dalle nostre mani. C’è in noi un Prometeo dormiente che «il più astuto degli animali» può ancora oggi svegliare. La Scrittura ci avverte a non lasciarci «incantare dal serpente» e a comprendere e a vivere con sapienza la nostra condizione di uomini e donne fragili, eppure destinati all’eterno.
La fragilità segna anche l’animo umano, la sua psiche, i suoi sentimenti. Sono suggestive le riflessioni del noto psichiatra Eugenio Borgna sugli aspetti luminosi e oscuri della condizione umana che ha molti volti e, in particolare, il volto della malattia fisica e psichica, della condizione adolescenziale con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza e con le sue discese negli abissi dell’insicurezza e della disperazione, ma anche il volto della condizione umana lacerata dalla solitudine e dalla non curanza, dallo straniamento e dall’angoscia della morte. Rimando alla lettura delle sue pagine ove accenna alle diverse fragilità proprie dell’umano: sono fragili (si rompono facilmente) le emozioni e anche le ragioni di vita, le speranze e le inquietudini, le tristezze e gli slanci del cuore; sono fragili le parole, le nostre parole umane, quelle con cui vorremmo aiutare chi sta male e quelle che desidereremmo dagli altri quando siamo noi a stare male. E si potrebbe continuare ancora.
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