L’essere umano è anch’esso costitutivamente vulnerabile e lo è in modo specifico, non soltanto biologicamente o psicologicamente: è intellettualmente e moralmente vulnerabile, nella sua natura più propria e più intima. Questa vulnerabilità, naturalmente, si fa sempre strada attraverso la mortificazione del corpo e della psiche. Tuttavia, essa mostra sempre, negli esseri umani, i tratti della sua correlazione con il bisogno di un riconoscimento intenzionale e di un apprezzamento personale che oltrepassano la fragilità e il limite psico-fisico che, infine, puntano alla certezza di una singolarità umana irrevocabile, inviolabile, insuperabile: in qualunque costellazione sociale, in qualsiasi contesto naturale. Questa consapevolezza è forse la parte migliore della nuova sensibilità antropologica che sta maturando in questo pur confuso e contraddittorio cambiamento d’epoca. La coscienza collettiva del profilo affatto speciale della vulnerabilità costitutiva dell’essere umano è un tratto nuovo della nostra evoluzione culturale.
Ha ragione Luigina Mortari nel sottolineare che «non solo non si può evitare la vulnerabilità connessa al nostro essere intimamente relazionali, ma le esperienze più significative sono proprio quelle dove la nostra vulnerabilità non è solo patita ma arrischiata, perché il fiorire dell’umano richiede non semplicemente, anche se mai è semplice, di stare con gli altri, ma apertura all’altro, tenerezza della mente, capacità di quella empatia che consente di comprendere la qualità del vissuto dell’altro, dedizione a cercare il benessere di chi amiamo con il rischio di sentirsi rifiutati proprio dove noi mettiamo in gioco noi stessi. In questo senso l’eccellenza umana presuppone di accettare fino in fondo la propria vulnerabilità e di essere arrischianti del rischio in cui la vita ci pone».
È dal secolo scorso che l’umanità è divenuta capace di distruggersi da sé, sia direttamente con la guerra nucleare, sia indirettamente con l’alterazione delle condizioni necessarie alla propria sopravvivenza. Il superamento di questa soglia era preparato da molto tempo, ma ha reso manifesto e critico quel che fino ad allora non era che un pericolo potenziale. In più, si è aggiunta la crisi che può nascere dalle nuove tecnologie emergenti e convergenti che intaccano direttamente l’umano: l’uomo può essere esaltato e assieme cancellato. Gli scenari che si aprono richiedono un nuovo impegno morale. Potremmo dire che l’istanza morale del rispetto e della responsabilità collettiva per l’uomo vulnerabile non è solo una deduzione del tema ecologico, né una variabile del calcolo economico. Jean-Marie Domenach parlava del «ritorno del tragico» nel mondo moderno.
La sensibilità per le vittime e la responsabilità dei vulnerabili è obiettivamente destinata ad illuminare una questione stantis aut cadentis della civiltà umana in quanto tale. Siamo pronti a prendere congedo dal nostro delirio di onnipotenza per riaprire l’orizzonte di una civiltà della compassione? La compassione che ci è richiesta non è la commiserazione sentimentale della disgrazia altrui, che ci procura sollievo per lo scampato pericolo, ma una vera e propria passione morale per la condivisione responsabile e fattiva della nostra comune vulnerabilità, a incominciare da quella che è minacciata dall’indifferenza, dalla rimozione, dall’abbandono. La vulnerabilità condivisa, attraverso la circolazione di una sensibilità che concepisce la sua inclusione nel progetto sociale complessivo, ci rende umani, tanto quanto la sua mortificazione condanna alla vana retorica ogni presunto progresso della civiltà del diritto e dei diritti.
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