Hanno creduto che avremmo protetto il loro stile di vita. Fin quando non ce ne siamo andati per ragioni ancora più nebulose di quelle che ci avevano portato lì
Sono stato in Afghanistan due volte, nel dicembre 2010 e un anno più tardi, a fine 2011. Nel mezzo del periodo che, a posteriori, è stato il culmine di intensità di questa guerra lunghissima. Una guerra che, qui, abbiamo sempre avvertito lontana, astratta. Raccoglievo materiale per un libro e il dubbio da cui avevo iniziato il processo era proprio quello: l’estraneità che io, come molti altri, avvertivo verso un conflitto che tuttavia si prolungava già da un decennio e del quale, che ci piacesse o no, anche noi italiani eravamo parte, con un contingente allora di quasi 3 mila soldati. Una guerra che era iniziata nel passaggio simbolico della mia maggiore età, combattuta dai miei coetanei, e che non accennava a finire.
Bene, ora è finita davvero e nel più disgraziato dei modi. Ricordo che, parlando con i soldati italiani laggiù, prima nella base di Herat poi in un avamposto angusto e pericoloso in Gulistan, cercavo di indagare quali fossero, secondo loro, le ragioni della nostra presenza. A che cosa servisse quella missione. Non si trattava di una domanda del tutto legittima da rivolgere a dei militari, lo sapevo, eppure continuava ad apparirmi una domanda sensata. Le risposte spaziavano dalle schermaglie più rigide («è il nostro mestiere»), alla retorica
imperialista e un po’ vaga («aiutiamo il popolo afghano nel suo percorso di liberazione»; «ma hai visto come trattano le donne i talebani?»), fino a reazioni più spontanee: «Non ne abbiamo idea, ci siamo e basta».L’avamposto del Gulistan, tirato su con sacchi di sabbia in mezzo a una spianata di deserto, sembrava confermare quel senso di vanità. I confini della «bolla di sicurezza» erano invisibili, lo era quasi sempre il nemico, e tutto appariva lattiginoso, ovattato, un vero e proprio deserto dei Tartari mediorientale. Dei pattugliamenti nel villaggio vicino a cui ho partecipato mi sfuggiva lo scopo, mi sembravano pericolosi e basta. Un dispiego clamoroso di vite umane, soldi ed energie in una terra che aveva qualcosa di fantasmatico, di irraggiungibile e inafferrabile, e che sarebbe probabilmente rimasta tale.
Durante la seconda visita il maltempo mi ha tenuto bloccato a Herat più del previsto. Gli elicotteri non volavano e io scalpitavo, perché la storia che avevo in mente non doveva svolgersi lì. Ho passato diverse giornate a girovagare tra i compound, la mensa, il bar desolante e il bazar. Una sera sono stato a una festa con delle luci stroboscopiche in una delle tende. Faceva molto freddo. Più per esasperazione che altro, mi sono arreso a partecipare al programma di visite rituali organizzato dall’ufficio stampa dello Stato Maggiore. Come sempre in questi casi, si trattava di un tour votato a magnificare l’utilità di quanto stavamo facendo lì. Il Provincial Reconstruction Team, a guida italiana e che ha concluso il suo mandato nel 2014, dichiara di aver portato a termine più di milleduecento progetti, tra cui scuole, ospedali, carceri, pozzi. Ma il nostro scopo principale, quello di tutta la missione ISAF, era di addestrare le forze armate afghane, di esportare competenze, disciplina, arte della guerra, in modo che quel popolo ipotetico dotato di un’unità nazionale ipotetica e di una democrazia ancora più ipotetica potesse presto andare avanti da sé, difendere i suoi (i nostri?) valori in autonomia.
Mi ha colpito ritrovare nelle parole di Davide Frattini una descrizione di quei soldati in addestramento pressoché identica a quella che conservo io: ragazzi che sembravano pescati chissà dove e messi fuori dal loro elemento, che già dalla postura con cui imbracciavano i fucili non trasmettevano alcuna fiducia. Indolenti, storditi. Quell’impressione non apparteneva solo al mio occhio esterno. Tra i nostri militari circolavano innumerevoli scherzi e aneddoti a proposito delle forze armate locali, della loro inefficienza, ed era impossibile non percepire dietro l’ironia uno sconforto invincibile, sebbene il personale italiano portasse avanti il suo compito didattico con umiltà, giorno dopo giorno. Per chiunque abbia osservato uno di quegli addestramenti, la velocità furiosa con cui i talebani hanno ripreso in mano l’Afghanistan lasciato a sé stesso non è affatto sorprendente. È solo più triste, perché annunciata. Eppure, già nel 2010, si poneva come data di ritiro delle truppe il 2014, quando l’esercito afghano avrebbe «verosimilmente assunto il controllo totale della sicurezza sul territorio».
Da quel «verosimilmente» e dalla mia visita sono passati altri dieci anni. Siamo rimasti in Afghanistan per venti in totale. Un’epoca intera. Le morti dei militari occidentali sono diminuite anno dopo anno, fino quasi ad azzerarsi, e questo ha dato a tutti noi l’illusione di una fine, di uno stato di quiete ormai raggiunto e difeso oltre l’ammissibile. Il silenzio ha allontanato ancora di più quel conflitto già alieno. Nel frattempo, per molti bambini e bambine, ragazzi e ragazze afghani cresciuti in questo tempo lungo, la nostra presenza di occidentali a protezione del loro stile di vita dev’essere diventato una promessa duratura in cui credere, su cui fondare delle esistenze. Finché ce ne siamo andati, per ragioni ancora più nebulose e non dichiarate di quelle che ci avevano portato lì, ritirando in un istante la promessa.
Non ho mai avuto fantasie meramente pacifiste. Al contrario, l’esperienza di scrivere un romanzo di guerra mi ha convinto dell’inevitabilità di molti conflitti, anche armati. Ma sulla missione in Afghanistan non sono riuscito a fugare nemmeno uno dei dubbi iniziali. Non il senso di estraneità, non il presentimento che si trattasse di un infernale giro a vuoto. Come si valuta l’opportunità di una guerra? La si valuta dalla bontà delle ragioni che l’hanno mossa, da quanta violenza ha portato, dal successo o dall’insuccesso; oppure da come lascia il teatro in cui si è svolta, dalla dote che ricevono le persone rimaste? L’ultima tappa del tour istituzionale a Herat prevedeva la visita di una scuola aperta per le studentesse. Ci sono arrivato a fine giornata, stanco. Quel tipo di esplorazione era così distante dalla mia ricerca del momento (indagare l’animo maschile in guerra, l’irruzione della violenza nella noia), che ho a malapena tollerato la passeggiata nei corridoi e nelle aule, la mostra dei disegni alle pareti, le spiegazioni della direttrice. Sto perdendo tempo, mi dicevo, questo non mi servirà a nulla. Perciò non ho fatto nessuna foto, non ho preso un solo appunto. Non ricordo nemmeno il nome.
Da
una settimana a questa parte, da quando Herat è finita sotto il controllo
talebano, non riesco a pensare ad altro che a quella scuola. Mi tormenta
l’immagine di come possa essere adesso, priva di protezione. Già chiusa? Già
devastata? Già trasformata in altro? Che cosa ne è delle studentesse che la
frequentavano? Mi tormenta ancora di più la mia insofferenza di allora, il non
aver capito niente di un’impresa che mi sembrava solo piccola e precaria.
Mentre oggi mi sembra che il senso di questa guerra lunghissima vada proprio
cercato nel destino di quella scuola a cui non ero interessato. Perché c’erano
gli americani, è vero, hanno sempre deciso tutto gli americani, ma c’eravamo
anche noi a formulare certe promesse, e siamo stati anche noi, d’un tratto, a
revocarle.
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