da: Il Fatto Quotidiano
“Alla carta stampata spetta la funzione di recuperare il sentimento del tempo, una memoria del passato che sola permette di dare una visione prospettica del futuro”. (Eugenio Scalfari alla Facoltà di Scienze umanistiche dell’Università La Sapienza – Roma, 22 aprile 2009)
La smobilitazione annunciata da Gedi, il gruppo editoriale che fa capo alla famiglia Agnelli e a cui appartengono i quotidiani la Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX oltre al glorioso settimanale L’Espresso, assomiglia per certi versi a quella ben più precipitosa e drammatica degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Più che un ritiro, anche questa è una fuga.
Nel nostro caso, una fuga dalla carta stampata; dalla libertà d’informazione; da quel pluralismo che va sempre più soffocando sotto l’assalto delle lobby padronali: cioè di quegli editori “impuri” che, tranne rare eccezioni, s’impadroniscono dei giornali per fare affari in altri campi e curare i propri interessi economici, finanziari, imprenditoriali.
A poco più di un anno dalla sua costituzione, e a cinque dall’infausta maxi-fusione che partorì l’ircocervo di “Stampubblica”, ora Gedi intende ridimensionare drasticamente gli organici redazionali e progetta addirittura di vendere L’Espresso, fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari. Una bandiera per diverse generazioni di
lettori progressisti, impegnati sul piano politico, civile e culturale. E, per così dire, anche lo status symbol di un’Italia che voleva crescere e cambiare, per diventare più laica e moderna: insomma, il portavoce di una “struttura d’opinione”, come usava dire Scalfari, che nel turn over generazionale tende oggi a ritrovarsi sulle pagine del Fatto Quotidiano.Sappiamo bene che, per la concorrenza della televisione prima e di Internet dopo, la carta stampata è in crisi in tutto il mondo. La chiusura di tante edicole nelle nostre città ne è la triste rappresentazione scenografica. Ma il declino dell’Espresso, per chi l’ha diretto dal 1984 al ‘91 passando in mezzo al fuoco incrociato della “guerra di Segrate” fra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori, assume il valore nostalgico di un paradigma: la disfatta del cosiddetto “editore puro”, vale a dire l’editore per mestiere e passione civile. Non a caso la crisi del settimanale di via Po risale agli anni Novanta, con l’avvento di De Benedetti al vertice del gruppo che proprio da quella testata prendeva nome insieme al titolo quotato in Borsa. “Venduti e comprati, restiamo noi stessi”, scrivemmo in copertina per rassicurare i lettori. Ma in quel frangente l’Ingegnere sembrava più preoccupato dalla reazione furibonda di Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica, in seguito alle rivelazioni del giornale sul “caso Gladio”.
Acqua passata, si dirà. Sì, ma acqua torbida. Quello fu l’avvio di una mutazione genetica da gruppo editoriale a gruppo di potere, come ho raccontato nel libro La Repubblica tradita (PaperFirst), che si sarebbe conclusa ingloriosamente con la cessione differita alla Fiat della famiglia Agnelli-Elkann. E così l’agonia del settimanale fondato da Scalfari rischia di ripercuotersi anche sull’immagine del quotidiano fondato da Scalfari, un giornale ormai in crisi di ruolo e d’identità.
Oggi il gruppo Gedi abbandona L’Espresso al suo destino, pronto a relegarlo in una bad company per disfarsene più agevolmente, senza aver investito su un cambio di formula, un rilancio o una rifondazione, magari in versione online multimediale. Una testata che ha avuto una parte rilevante nella storia nazionale, già ridotta a supplemento domenicale di Repubblica, viene messa in liquidazione quasi fosse un’auto da rottamare.
Magari con gli incentivi pubblici o con il prestito garantito dallo Stato.
Nessun commento:
Posta un commento