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I sistemi informatici sono diversi da regione a regione e faticano a dialogare anche all'interno delle stesse ASL e ospedali, e nell'epidemia si sono visti i risultati
Se i sistemi sanitari italiani di fatto sono 21, quelli delle 19 regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, i sistemi informatici sanitari con cui ci si può ritrovare ad avere a che fare, direttamente o indirettamente, sono molti di più. In questi nove mesi di epidemia da coronavirus, le manifestazioni di questa frammentazione sono state tante, ed è diventato evidente a molti quello che di cui prima avevano percezione in pochi: non è una frammentazione che si sviluppa soltanto su base regionale, ma anche all’interno delle stesse ASL, addirittura degli stessi ospedali.
I dati sanitari di chi vive in Italia, dai referti degli esami del sangue ai dettagli su quel ricovero ospedaliero qualche anno fa, dallo storico delle terapie farmacologiche alle vaccinazioni fatte, sono sparpagliati, registrati in formati diversi e spesso difficili da consultare non soltanto per i pazienti, ma anche per i medici di famiglia, per gli specialisti, per gli ospedali. Oppure per circa un terzo degli italiani sono raccolti nel Fascicolo Sanitario Elettronico, che però – almeno per il momento – è uno strumento per l’assistenza individuale al paziente che non può essere usato per scopi collettivi.
Della farraginosità dei sistemi informativi
– un termine più appropriato rispetto a “sistemi informatici” – della sanità
italiana si è accorto chi ha dovuto prenotare
online un tampone su siti che andavano continuamente offline, chi ha atteso per
giorni un SMS dell’ASL dopo aver ricevuto il referto positivo di un tampone,
o chi si è ritrovato nella kafkiana situazione di essere in una regione diversa
da quella del proprio medico di famiglia durante il lockdown. Oppure non si è
accorto di niente di tutto questo: perché in Italia ci sono anche posti dove
questi sistemi funzionano bene e dialogano efficientemente tra di loro.
«La frammentazione
del patrimonio informativo su un paziente è tale per cui non si riesce ad avere
un quadro completo sul suo conto: tra strutture diverse, ma anche
all’interno della stessa struttura e ancora di più nella medicina territoriale,
che spesso non ha possibilità di condividere le informazioni col resto del
sistema sanitario» spiega Fabrizio Massimo Ferrara, docente di Informatica e
Sistemi informativi all’Università Cattolica del Sacro Cuore e coordinatore
scientifico del Laboratorio sui sistemi informativi sanitari dell’ALTEMS (Alta
Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari).
Il problema è che qualunque sistema informatico di un’azienda sanitaria
è formato normalmente da tante
applicazioni diverse, costruite seguendo quella che viene spesso definita
“logica a silos”: cioè per compartimenti stagni che raccolgono al loro
interno informazioni legate alla propria specialità clinica, ma che poi
dialogano tra loro con fatica, quando dialogano. «Spesso non è niente di più di
una posta elettronica un po’ organizzata» dice Ferrara.
È il motivo per cui, in gran parte degli
ospedali, i dati sul coronavirus sono stati raccolti a mano in infinite tabelle
di Excel, in mancanza di piattaforme dedicate, condividendole via mail. Ed è
stato evidente per i medici di famiglia che hanno dovuto o devono ancora
comunicare le segnalazioni alle ASL per posta elettronica o per telefono:
aumentando drasticamente la possibilità di errori dovuti a procedure un po’
manuali e un po’ automatiche, come nel caso delle centinaia di mail di
segnalazioni perse a un certo punto alla ASL di Torino.
«Il processo di informatizzazione e
digitalizzazione frammentato deriva da un mercato che anziché lavorare sui
grandi progetti tende a vendere software e hardware a livello locale» spiega
Mauro Moruzzi, esperto di e-Health e ideatore del Fascicolo Sanitario
Elettronico. Per questo ogni regione ha i suoi sistemi informatici, alcuni più
efficienti di altri. Quando è arrivato il momento di affiancare a questi sistemi
una piattaforma nazionale, come quella che registra le segnalazioni su Immuni,
sono emersi insormontabili problemi di integrazione.
Software molto specifici e dati raccolti in
formati non standardizzati significa che spesso, anche volendo innovare i sistemi,
le aziende sanitarie sono vincolate a rimanere con il fornitore originario, per
non perdere i dati o per evitare i costi del loro trasferimento. In molti casi,
il miglioramento dell’efficienza dei servizi ha coinciso con una loro ulteriore
complessità, invece che con una maggiore integrazione con applicazioni e
sistemi diversi.
Nel frattempo i dati sanitari continuano ad
aumentare, a essere catalogati in posti diversi, e la loro riorganizzazione
diventa sempre più complicata: con evidenti conseguenze sull’efficienza e
l’efficacia dell’assistenza sanitaria, perché aumenta il rischio di errori nei
passaggi di consegne che ci sono nella cura di un paziente. Ma anche sul carico
di lavoro degli operatori, e quindi sui costi complessivi della sanità.
Non è soltanto una questione di strumenti
tecnologici. Anzi, per molti esperti quello è un problema secondario.
Intervenendo a un incontro organizzato dal sito VareseNews Umberto Rosini,
responsabile dei sistemi informativi per la Protezione Civile, l’uomo che
concretamente gestisce la raccolta dei dati quotidiani sull’epidemia, ha
spiegato che oltre alle infrastrutture «manca la formazione delle persone che
devono andare a caricare il dato».
«È una questione di conoscenza del dato e
di saperlo gestire: noi possiamo mettere su qualsiasi struttura, qualsiasi
collegamento tra le amministrazioni, ma di fatto quel dato deve essere inserito
lì da qualcuno». Il fattore umano è «importantissimo» secondo Rosini, e la
formazione del personale è ancor più fondamentale delle risorse tecnologiche,
che a suo avviso ci sarebbero. «Non abbiamo un sensore che non appena un
paziente viene adagiato su un letto inserisce su un database un +1».
La pandemia ha provocato una generale
accelerazione del ricorso al digitale nella sanità, che si è concretizzata
principalmente nell’utilizzo della telemedicina, cioè nell’erogazione di
prestazioni sanitarie – principalmente visite – a distanza. «Prima del Covid di
fatto in nessuna regione si era esplorata con continuità la telemedicina. C’erano
delle esperienze pilota, soprattutto nel Nord Est, ma nessuna regione aveva
messo delle linee guida specifiche, nonostante il ministero della Salute avesse
pubblicato quelle nazionali già nel 2014» spiega Francesco Petracca,
ricercatore del CERGAS dell’università Bocconi. «Ad oggi, ad aver recepito e
adattato quelle linee guida sono ancora soltanto nove regioni».
Ma riorganizzare e innovare i sistemi
informativi della sanità è una questione più complessa. Secondo Moruzzi, questo
processo deve necessariamente passare dal Fascicolo Sanitario Elettronico, raro
caso di struttura digitale presente in tutta Italia: almeno in potenza, visto
che alcune regioni devono ancora attivarlo pur avendo da anni a disposizione la
struttura. È il posto in cui già 22 milioni di italiani possono consultare i
referti degli esami del sangue, ricevere le ricette elettroniche dal medico di
base e fare tante altre operazioni in modo semplice e nello stesso posto.
«È un sistema basato su tanti nodi sparsi
in tutte le aziende sanitarie, intercettati da repository regionali che poi si
collegano anche a un sistema nazionale» spiega Moruzzi, secondo cui un
potenziamento del FSE avrebbe potuto aiutare anche nella sorveglianza
epidemiologica. Estraendo anonimamente i dati dai fascicoli, si sarebbero
potute creare delle mappe delle fragilità fisiche degli italiani, in modo da
individuare demograficamente e territorialmente le fasce più a rischio.
Quest’operazione però è molto complessa,
per stessa ammissione di Moruzzi. Il FSE rimane principalmente uno strumento
per la cura individuale del paziente, secondo Petracca. Un fascicolo unico, per
l’appunto, con tutti i documenti sanitari che riguardano il cittadino.
Documenti peraltro spesso in PDF, leggibili da software appositi, ma con una
certa percentuale di rischio d’errore che complica la raccolta e l’utilizzo dei
dati sulla collettività, ricorda Ferrara: «non è uno strumento di gestione, ma
di consultazione».
Secondo Ferrara, i necessari interventi di
riorganizzazione dei sistemi informativi sanitari dovrebbero auspicabilmente
partire da direttive nazionali, ma inevitabilmente «passano dalle sensibilità
delle singole aziende». Le strategie di innovazione difficilmente riguarderanno
«soluzioni monolitiche di un unico fornitore», piuttosto saranno soluzioni che
manterranno i sistemi già utilizzati ma integrandoli tra loro, organizzando i
dati raccolti in modo che siano standardizzati e di proprietà dell’azienda
sanitaria e non del fornitore informatico.
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