da: Domani - di Daniela Preziosi
Le regioni conoscevano già da un mese i criteri per i nuovi lockdown
A inizio ottobre il presidente della conferenza stato regioni Bonaccini scrive al governo: avalla i parametri, ma chiede siano «non vincolanti»
Il dispositivo con cui da mercoledì il governo ha deciso di individuare le fasce di rischio-contagio era una bomba a orologeria. Le regioni lo conoscevano bene, e hanno aspettato i tempi giusti per accendere la miccia.
Lo scontro che va in scena in queste ore è esattamente quello che palazzo Chigi si era illuso di evitare. Ma, con buona pace degli autorevolissimi appelli alla collaborazione, era scritto. Perché il passaggio alla zona rossa di una regione, che il premier Giuseppe Conte definisce «automatico», suona come un atto di accusa per il suo presidente.
Il documento
Il meccanismo delle fasce, sul quale ieri è scoppiata la polemica alla camera, è il busillis che il governo ha escogitato per provare a rendere «oggettiva» – altra parola usata da Conte - una scelta ad alto rischio di conflitto. Ma per le regioni non è stato affatto un fulmine a ciel sereno. Basta ripercorrere le tappe, scorrendo la corrispondenza fra Stefano Bonaccini, presidente della Conferenza delle regioni e il ministro della Salute Roberto Speranza.
L’ormai famoso documento Prevenzione e risposta a Covid-19, contenente le fasce e le tabelle con le restrizioni progressive da attuare, è stato inviato dal ministero alla conferenza delle Regioni i primi di ottobre. Giovedì 8, alle cinque del pomeriggio, arriva la risposta. Nota protocollata numero 7400/Covid. «Caro ministro», scrive Bonaccini, «facendo seguito alla corrispondenza intercorsa, Ti informo che la Conferenza delle regioni e delle province autonome, nella odierna seduta, ha valutato la bozza di documento elaborato dall’Istituto superiore di sanità. Al riguardo Ti comunico che la conferenza ha condiviso i contenuti del documento», condiviso dunque, «con le seguenti osservazioni e proposte di modifica: le misure declinate negli scenari hanno la funzione di supportare e orientare il processo decisionale delle singole regioni e province autonome in relazione al proprio scenario epidemiologico e proprio per la loro funzione di orientamento non sono da intendersi vincolanti». Insomma, sin da un mese fa il documento è «condiviso» dalle regioni. Anche se non considerato «vincolante». Ma questo si capisce: altrimenti avrebbero potuto e dovuto autonomamente procedere alle strette consigliate dal progredire dei contagi, messe in fila tabella per tabella. È l’inizio del doppio gioco.
Il conflitto annunciato
Da allora ci sono presidenti che si attestano sulla «necessità» di misure nazionali, altri che hanno aspettato che qualcuno – il governo – levasse loro le castagne dal fuoco. Salvo poi scatenarsi.
Stessa cosa sulla «cabina di regia» che ha la funzione di «monitoraggio» sulla pandemia: raccoglie i dati inviati dalle regioni, li assembla, li elabora e definisce la classe di rischio di ciascuna. L’organo, costituito con decreto del ministro della Salute lo scorso 29 maggio, è coordinato dal direttore generale della prevenzione sanitaria Giovanni Rezza, ed è composto da due direttori generali del ministero, dal presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, da altri due rappresentanti dell’Iss e da tre rappresentati delle regioni: Vittorio Demicheli (Lombardia), Enrico Coscioni (Campania) e Claudio Dario (Umbria).
Le regioni oggi contestano una «cabina di regia» in cui sono autorevolmente, e abbondantemente, rappresentate. Ieri, come seguendo un copione, all’indomani della presentazione del nuovo Dpcm – e dell’annuncio dell’iscrizione alla fascia rossa delle prime regioni – alla Camera la vicenda esplode. Il primo colpo
di cannone arriva da Mariastella Gelmini, capogruppo forzista. «Il ministro Roberto Speranza e il presidente Conte vengano in parlamento. E, dati alla mano, spieghino ai lombardi, ai piemontesi, ai calabresi, ai cittadini della Valle d’Aosta, perché le loro regioni sono zona rossa, mentre altre non lo sono». Quella che è un’allusione diventa l’accusa della collega Maria Tripodi: «Come mai regioni governate dal centrodestra vengono etichettate
‘zona rossa‘, mentre altre governate dal centrosinistra come ‘zona gialla‘?». La replica è della dem lombarda Lia Quartapelle, solitamente moderata: «Tutti i giorni Fontana e Gallera trasmettono al governo i dati sui contagi, è incredibile che i colleghi della Lega non si siano resi conto che un quarto dei contagiati di tutta Italia risiede in Lombardia?». La Lega si scatena, seguono espulsioni.
Il capogruppo Pd Graziano Delrio smussa gli angoli: «Anche noi abbiamo sollecitato Speranza a venire in aula, per fornire in modo più trasparente i dati relativi alle varie classificazioni. Ma sono automatici, non discriminatori». Speranza ascolta e intanto scorre la valanga delle contestazioni: il presidente piemontese Alberto Cirio, il lombardo Attilio Fontana. Il facente funzioni calabrese Nino Spirlì (succeduto a Iole Santelli, scomparsa il 15 ottobre), annuncia l’impugnazione del decreto. Spirlì ha il dente avvelenato: il ministero ha anche allungato di 18 mesi il commissariamento della sanità della sua regione. Ma su Speranza arriva anche fuoco amico. Il giorno prima il presidente campano Vincenzo De Luca. Ieri il sindaco di Milano Beppe Sala: il sistema scelto è «troppo complesso», i 21 parametri sono «difficilissimi da decifrare». Il ministro detta un comunicato severo: «Le regioni alimentano i dati con cui la cabina di regia effettua il monitoraggio dal mese di maggio. Nella cabina di regia ci sono tre rappresentanti indicati dalle regioni. È surreale che anziché assumersi la propria parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati che riguardano i propri territori».
Nel pomeriggio l’Istituto superiore di
sanità organizza una conferenza stampa per spiegare come, sui dati inviati
dalle regioni, viene applicato l’algoritmo che le spedisce nella fascia rossa.
Oggi Speranza sarà alla Camera per fare altrettanto dinanzi al parlamento.
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