da: La Repubblica - di Arianna Finos
Giancarlo
Giannini, 77 anni, vincitore di numerosi David di Donatello e Nastri. Nominato all’Oscar
nel 1977. L’attore avrà la sua stella sulla Hollywood Walk of fame
In attesa di inaugurare a inizio 2021 la stella
che Hollywood gli dedica sulla Walk of fame, Giancarlo Giannini, 78 anni ad
agosto, se n’è costruita una da solo: «Mi piace fare il muratore, ne ho
incassata una sulla pietra serena del marciapiede della casa di campagna»,
spiega ridendo, «sono il secondo attore italiano a riceverlo dopo Rodolfo
Valentino, con Anna Magnani, Sophia Loren e Gina Lollobrigida».
La
stella suggella il suo lungo rapporto con Hollywood.
«In America a volte mi hanno amato più che
in Italia. I primi film hollywoodiani li ho girati da noi. Nel ’68 Lo sbarco di
Anzio, con Robert Mitchum e Peter Falk, ero l’unico italiano, il marine
Cellini, piccoletto rispetto agli altri. Lo girammo a Taranto, la sera la
troupe giocava a poker tra decine di bottiglie di birra, Mitchum non beveva e
ce ne andavamo in giro. Mi raccontava di quando aveva convinto un giornalista
che andava a raccogliere farvalle nei boschi, o quando aveva radunato cento
invitati in smoking obbligatorio a una festa e si era presentato nudo con le
parti intime coperte di panna. Era un grande consumatore di marijuana, si
faceva le sigarette spacciandole per Marlboro. Io avevo studiato inglese a Londra
per il ruolo,
con un maestro che mi metteva lo stuzzicadenti per pronunciare
“th”, sul set ridevano tutti, Mitchum e gli altri mi dovettero insegnare lo
slang americano. Quando lo rividi a Todi, tantissimi anni, dopo si ricordava
ancora le battute che mi aveva insegnato».
Nel 1989 “New York Stories” con Francis Ford Coppola.
«Lo conobbi a una cena anni prima, aveva
visto Amore e anarchia e mi voleva per Apocalipse Now nel ruolo con cui Duvall
ha vinto l’Oscar, ma ero impegnato con Visconti. Mi disse “ma fai spostare il
film”, come se io avessi quel potere. Un anno prima me lo aveva detto anche
Spielberg, mi aveva chiamato per l’antagonista di I predatori dell’arca perduta
ma slittò per uno sciopero e poi io ero impegnato con Fassbinder, “chi è? Ma
sposta quel film”, disse Spielberg. Gli americani sono strani, bisogna saperli
prendere. Poi Coppola mi richiamò, “devi interpretare mio padre”, che era stato
primo flauto di Toscanini. Avevo in ballo Il
male Oscuro con Monicelli, che ebbe un incidente con molte fratture. Coppola
mi chiamò il giorno stesso: “allora puoi fare il film”».
Mai
pensato di trasferirsi?
«No, mi piace il mio paese e a Hollywood ti
offrono ruoli da italiano. La Columbia mi offrì un contratto da sei mesi
all’anno come protagonista di una serie, un detective italiano rompiscatole in
America: “Sistemi economicamente figli e nipoti”. Non volevo essere legato per
anni».
Ha
lavorato con una sconosciuta Julia Roberts.
«Legami di sangue, western poco interessante
in cui ero un patriarca viticoltore, mio figlio era Eric Roberts e avevano
chiamato la sorellina. Nella scena in cui assaltavano il ranch Julia aveva un
primo piano disperato ed era intensissima, la segnalai ai produttori. “Ma figurati,
è solo la sorella di Eric”. Poco tempo dopo era una stella».
Le
è capitato altre volte di intuire il talento?
«Con Daniel Craig, Bond, all’inizio tutti
scettici, io sapevo che grande attore fosse, di una simpatia devastante, fa da
solo gli stunt. Stavamo così bene che dopo Casino Royale ho fatto Quantum of
solace».
Incontri
folgoranti?
«Con Billy Wilder. Ero a Los Angeles per un
film italiano, mi portano da Spago e lui mi fa invitare dal cameriere al suo
tavolo, con Diana Ross, Sidney Poitier, Michael Caine. Mi presenta e si mette a
citare, col suo accento anglotedesco, battute di Mimì metallurgico. Con Andy
Warhol passeggiavamo, lui aveva sempre una polaroid e un registratore. Mi portò
nella sua Factory e mi fece un servizio fotografico».
Poi
“Hannibal” di Ridley Scott.
«Scott cercava in Italia una attore giovane,
ma non lo aveva trovato. De Laurentiis voleva me, per il regista ero vecchio.
Dino mi chiama una sera: “Scurisciti i capelli col carbone e manda un video
provino”. Io mando una cassetta in inglese, i capelli scuriti, cazzeggio: cito
Shakespeare, mi tolgo la giacca, “che classe eh” e poi finisco “vuoi che faccia
altro? Tanto sono un genio, che importa, who cares?”. Sul set quella battuta è diventata
un tormentone, Ridley facava solo un ciak e e poi “vuoi farne altro? Sei un
genio, who cares?”».
Ha
intercettato un giovane Guillermo Del Toro.
«Mimic
era il suo primo film americano, un horror pieno di effetti speciali. Giriamo
una scena in un salone enorme, pieno di letti, con gran dispiego di mezzi e io “ammazza,
ti trattano come Kubrick”. E lui: “Zitto, che forse è l’unico film che faccio,
prima che mi rimandino in Messico, sfruttiamo il momento”».
“Man on fire” con l’altro Scott, Tony. E Denzel Washington.
«Washington bravo, severo, un grande
attore. Il mio ruolo bellissimo fu tagliato nel finale, non è simpatico spiegare
perché. Le dico solo che gli attori americani hanno un potere enorme, un
italiano che fa? Se Ridley era silenzioso, Tony era esuberante. I due fratelli
erano in competizione. Ricordo una scena faraonica di incendio in un locale, “mio
fratello in Black Hawk Down ha avuto 16 macchine, io ne ho 36!”. Era geloso
perché Ridley era più famoso. Mi faceva arrivare in Messico bottiglie di
Brunello di Montalcino, ed ero astemio, mi regalava piante a cui ero allergico.
La mattina alle 4 andava a scalare montagne. Non credo che si sia buttato dal
ponte perché malato, penso che abbia sbagliato una di quelle grosse operazioni
finanziarie che facevano lui e il fratello e non ha retto alla vergogna».
Di
recente cosa le è piaciuto fare?
«Con Clooney la serie Catch 22. George mi
ha mandato il testo con la sua voce registrata, sul set mi ha preparato
bellissimi cartelli con le frasi. Ho invece rifiutato il film Dubbing De Niro,
un doppiatore che perdeva la voce e andava in America a incontrare De Niro, ci
riusciva nelle ultime scene. Conosco De Niro, ma il progetto non mi ha
convinto».
Nella
casa di campagna conserva gli oggetti della sua carriera?
«Qualcosa, la lettera dispiaciuta di Spielberg
quando ho detto no, i complimenti di Ridley Scott e i fumetti che Tony mi
mandava la sera sulle riprese, le foto di Warhol. Ma le conservo senza enfasi,
le cose si fanno e si dimenticano».
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