Dov’è
finito Zonin? Ascesa, declino e oblio del banchiere del popolo che ha affossato
Vicenza
Era
il re di Vicenza, la sua parabola è stata la madre di tutte le crisi bancarie,
adesso è sotto processo: ma la storia del vignaiolo prestato alla finanza è
istruttiva per capire che si fa presto a parlare di truffati dalle banche
di Stefano
Cingolani
La saga dei rimborsi è ancora lontana dalla
conclusione, nonostante l’accordo raggiunto dal governo con le associazioni
degli investitori. Il miliardo e mezzo di euro già stanziato, è alla ricerca di
un sistema legittimo per essere erogato, perché non sfugge a nessuno che
l’italica pretesa di intascare i profitti e farsi pagare le perdite da tutti
gli altri contribuenti, è iniqua e illegale. A rullare i tamburi di guerra più
delle altre è la tribù dei “truffati” veneti, in particolare gli ex azionisti,
obbligazionisti, sottoscrittori, depositanti della Banca Popolare di Vicenza,
la madre di tutte le popolari fallite, l’alfa e l’omega di un sistema che ancor
oggi si insiste a difendere.
La banca del territorio, la banca del
popolo, la banca di sistema: tutti caciocavalli appesi come le idee hegeliane
secondo Benedetto Croce. Perché la realtà è che non ci sono da una parte lupi e
dall’altra candide pecorelle: le ire funeste di chi oggi ha perso il proprio
capitale andrebbero bilanciate con le gioie di chi brindava in mezzo alla
tempesta. A Vicenza è crollato il paradigma che ha fatto grande, robusto, ricco
quel territorio finché è durato il carnevale.
Lo ha ammesso Giancarlo Ferretto, proprietario della Armes (sistemi di
imballaggio), già presidente della Confindustria veneta e vicepresidente della
BPV: "Se il Nord Est ha retto
lo si deve anche alle banche popolari le quali, mentre le altre chiudevano i rubinetti, hanno
continuato a erogare credito. Ma distribuivano utili che di fatto non
avevano, incrementavano le azioni senza che ci fosse un corrispondente
effettivo". L’autodafé si spinge più in là: “Noi risparmiatori abbiamo sbagliato, le abbiamo considerate la mucca da
mungere. Ogni anno distribuivano i dividendi, ci mettevano lì la monetina e
aumentava il valore delle azioni. Io per primo ho fatto questo errore. Dovevamo
capirlo: mentre i titoli delle banche quotate in borsa scendevano, quelli della
BPV o di Veneto banca continuavano a crescere. Eravamo come drogati. Teniamo in
piedi il territorio, ci ripetevano, siamo un sistema protetto”.
Al centro di questo sistema si era
collocato Gianni Zonin, personaggio
chiave nella Vicenza dell'ultimo quarto di secolo. “Troppo facile adesso dargli
la croce addosso”, dice Ferretto che pure ha sfidato il “vignaiolo prestato
alla finanza”. E affonda: “C'è stata
un'omertà, un silenzio, un'acquiescenza. Ci sono molte responsabilità e quelle più grandi le ha la Banca d'Italia”.
È così? La vigilanza di via Nazionale è sotto il tiro incrociato. Per i
difensori dei piccoli soci-debitori, non si è mossa con la dovuta fermezza. Per
Luca Zaia, il presidente leghista
della regione Veneto, al contrario, la banca centrale ha peccato di “eccesso di
zelo”, perché insieme al governo “ha preso le banche e le ha gettate sul
mercato”. A via Nazionale si difendono inanellando i fatti.
Il 15
febbraio 2018 il giudice della
udienza preliminare, Roberto Venditti, ha stabilito il sequestro conservativo
di beni per 176 milioni di euro donati
da Zonin ai familiari dopo l'inizio
dell'inchiesta. Il danno per i
risparmiatori della banca (a causa del calo di valore delle azioni, da
62,50 euro precipitate a 10 centesimi) ha fatto perdere 6 miliardi di euro a 118.000 piccoli azionisti. Nel marzo
2018 il Tribunale di Vicenza ha ordinato un ulteriore sequestro di beni di
Zonin per 19 milioni di euro. “Paron
Zani” si è rifugiato nella sua villa
a Terzo d’Aquileia pretendendo di apparire come un perseguitato dalla
sfortuna e dalle serpi covate in seno. Tutto è passato ai figli Domenico
(presidente al posto del padre), Francesco (vice) e Michele che fa l’avvocato,
più la moglie Silvana Zuffellato; il pacchetto azionario è suddiviso tra i
membri della famiglia direttamente o attraverso alcune società veicolo. E
l’eroe di un tempo diventa il grande traditore come nella novella di Jorge Luis
Borges.
Il processo,
il più grande mai celebrato fino ad oggi in Italia per reati bancari, si è
aperto a dicembre. Sono imputati i vertici
della banca, a partire da Zonin fino
agli ex vicedirettori Emanuele Giustini e Paolo Marin, l’ex dg Andrea Piazzetta e l’imprenditore Giuseppe Zigliotto, già
presidente della Confindustria locale e consigliere di amministrazione. Le accuse sono di aggiotaggio, ostacolo alla
vigilanza di Bankitalia e Consob e falso in prospetto. Secondo i pm, Zonin
non può essere considerato “un inconsapevole pensionato perché era
perfettamente a conoscenza di quello che avveniva in banca. Si comportava come
un amministratore delegato e tanti suoi amici hanno compiuto operazioni
baciate”. La difesa, invece, sostiene che i veri responsabili del crac “sono
fuori dal processo”, e intendono gli ex manager che avrebbero agito per proprio
conto con operazioni spericolate che hanno eroso il capitale fino a portarla al
collasso. Il “tribunale del popolo”
capeggiato dalle organizzazioni dei soci ha già emesso le sue condanne,
vuole che a pagare sia lo stato, cioè
tutti gli altri contribuenti. Intanto, su tutto l’impero Zonin, compresa il
pezzo forte, il vino, s’allunga l’ombra dell’incertezza. Nel dicembre scorso
Alessandro Benetton con la finanziaria 21Invest è entrato in Zonin1821 la
holding dell’azienda vinicola prendendo il 36% e portando 65 milioni di euro
(su un fatturato attorno ai 200 milioni) che saranno tutti investiti per
sviluppare le attività produttive. E tra cinque anni, se tutto va bene, la
borsa. Si chiude così un’altra storia centenaria di capitalismo familiare.
Giovanni
detto Gianni, classe 1938, con diploma d’enologo a Conegliano e una laurea in
giurisprudenza, nel 1967
a soli 29 anni aveva preso il posto
dello zio Domenico alla guida dell’azienda di famiglia, trasformata in società
per azioni. Allora la Zonin imbottigliava
il vino comprato dai produttori e per compiere un salto di qualità era
necessario uscire dalla provincia. Il primo balzo avviene nel 1970 con l’acquisto della tenuta di Ca’ Bolani in Friuli; seguiranno San
Gimignano, la Maremma, il Piemonte, l’Oltrepo pavese. Poi il grande passo verso
i sontuosi grappoli dell’area mediterranea con la Masseria Altemura nel Salento
e il Feudo Principi di Butera in Sicilia tra il 1997 e il 2000, “acquistate con
mezzi propri”, precisa l’azienda vinicola. L’Italia non basta e arriva anche il
sogno americano. Nel 1976, Zonin pianta le viti in Virginia, a Barboursville
Vineyards, una impresa già fallita ai tempi di Thomas Jefferson e mai più
tentata dai primi dell’800.
La popolare
vicentina gli spalanca le porte quando è già nel club dei grandi produttori
di vino e si è affermato come imprenditore coraggioso. Diventare soci
significava entrare nel giro esclusivo di chi conta davvero, quindi era sempre
stato molto difficile. Nata nel 1866 per servire il popolo, la BPV in realtà
serviva la classe dirigente locale. Finché il capitale non si è aperto anche ai
dipendenti creando così un “parco buoi” manovrabile, visto che le carriere
interne sono strettamente legate alla sorte dei vertici.
Zonin
prende il timone nel 1996, quando l’istituto di credito contava
150 sportelli e poco più di 20 mila azionisti. Con lui le filiali diventano 650 e gli azionisti oltre 110 mila. La
sua prima mossa è rifiutare le nozze già apparecchiate con la banca
di Padova. Due anni dopo, insieme all’Ina e allo spagnolo Banco de Bilbao,
compra una quota della BNL appena
privatizzata. Frutterà lauti guadagni, ma anche un processo per complicità
nella scalata lanciata nel 2005 dall’Unipol di Giovanni Consorte alla banca
romana. Zonin verrà assolto, e finora nessuna delle numerose indagini
giudiziarie contro di lui si è mai conclusa con una condanna.
Nel 2002
la Cassa di Prato, in grave difficoltà, viene salvata dalla BPV. Nel
frattempo, c’è lo sbarco in Sicilia
dove Zonin acquistava poderi
importanti. Nel 1998 la Popolare di Vicenza
cerca di acquisire il polo creditizio nato dalla fusione tra il Banco di
Sicilia e la Sicilcassa. L’operazione, in cordata con altri soci, non riesce
perché prevale la Banca di Roma.
In politica
Zonin ha seguito l’onda, come i suoi
pari: è stato vicino ai democristiani,
anzi ai dorotei per l’esattezza, poi berlusconiano,
ma senza trascurare la Lega (al
potere in Veneto). Tuttavia ha saputo essere trasversale. Vicenza è finita in
mano al centro sinistra, anche se guidato da un democristiano d’antan come
Achille Variati fattosi poi renziano ed entrato nel consiglio di
amministrazione della Cassa depositi e prestiti. Il salotto buono e colto è la
Fondazione Roi creata nel 1988 dal marchese Giuseppe Roi, pronipote di Antonio
Fogazzaro, e dotata di un vasto patrimonio soprattutto immobiliare. Socio
influente della BPV, quando muore, nel 2009, il marchese lascia alla banca la
gestione dei suoi beni. Così Zonin diventa presidente della fondazione.
I primi
dubbi sulla irresistibile ascesa del
vignaiolo spuntano nel 2001. Gli
ispettori della Banca d’Italia
trovano “poco oggettivo” il valore delle
azioni (44 euro). Ci mette il becco anche la magistratura che avvia
un’indagine per falso in bilancio, ma il procuratore capo Antonio Fojadelli
archivia il tutto. Un tentativo di riaprire il caso finisce con il “non luogo a
procedere”. Affonda nel nulla anche l’accusa lanciata dall’Adusbef di “metodi
estorsivi per diventare azionisti” archiviata nel 2009 perché “non si ravvisano
credibili ipotesi di reato”. Intanto, scoppia la grande crisi finanziaria.
Il 2007
è un anno che fa da cerniera. L’Antitrust guidato da Antonio Catricalà dice no
all’ingresso nel patto di sindacato di Mediobanca
per incompatibilità visto che la banca guidata da Zonin è azionista della Cattolica Assicurazioni e della Nordest
Merchant (insieme ai Benetton). Sarebbe stato il coronamento del grande
sogno, invece rappresenta il punto di svolta negativo. Allora si consuma anche
la rottura con un socio di rilievo come Nicola Amenduni, il gran capo delle acciaierie
Valbruna, per un conflitto sulle strategie e sul direttore generale. Gli uomini
della vigilanza contestano inoltre alcune operazioni in derivati perché
nel frattempo si era acceso il semaforo rosso sui contratti ad alto rischio
nascosti nei bilanci. Nel 2012 nuove
indagini, mentre nell’anno successivo vengono effettuati diversi interventi
(con lettere e nel corso di incontri) per richiamare la banca al rispetto dei
limiti previsti all’epoca per il riacquisto delle azioni proprie e “per porre
all’attenzione l’esigenza di non ingenerare nei soci aspettative di sicura e
pronta liquidabilità del titolo azionario o di garanzia di un rendimento minimo
dell’azione”, come scrive la Banca d’Italia nella nota tecnica trasmessa alla
commissione d’inchiesta del consiglio regionale del Veneto. La lettera è un
meticoloso elenco delle cose fatte, fino alla “spinta” per le dimissioni di
Zonin e la trasformazione in società per azioni il 3 marzo scorso.
Eppure
la popolare vicentina era riuscita
a superare gli stress test anche se di stretta misura. ”La Banca Centrale
Europea ci ha promosso in Europa fra i primi 13 più importanti gruppi bancari
italiani – scriveva orgoglioso Zonin – siamo risultati una banca solida e
fortemente patrimonializzata”. Era il 4
dicembre 2014. Solo due mesi dopo la
Bce avrebbe avviato un primo accertamento per monitorare il sistema di
governo, di gestione e controllo dei rischi, proseguito con una nuova verifica
nel mese di marzo. All’assemblea dell’11 aprile 2015, quello stesso presidente che
a Natale si felicitava con gli azionisti, propose di ridurre il valore del
titolo da 62,50 a 48 euro. Un anno dopo sarebbe arrivato a 6 euro, perdendo in
sostanza il 90%.
Lo stratagemma
per schivare la vigilanza sta nel riscatto
con chiusura anticipata di un prestito
obbligazionario con scadenza 2018, emesso un anno prima. Dallo stress test,
precisa la banca stessa, “emerge una carenza tecnica patrimoniale pari a 223
milioni di euro, più che compensata dalla già deliberata irrevocabile
conversione del prestito obbligazionario soft mandatory per 253 milioni di
euro”. Con quei 30 milioni di surplus residui il gioco è fatto.
Perché allora, nonostante ciò, si è
continuato a parlare della BPV come
possibile “aggregatrice” per salvare
la Popolare dell’Etruria? Una tesi
evocata da più parti è il buon rapporto con la Banca d’Italia grazie alla rete
protettiva formata da ex funzionari di
palazzo Koch: Gianandrea Falchi, già capo della segreteria quando Mario
Draghi era governatore, assunto nel 2013 alle relazioni istituzionali; Mariano Sommella, arrivato fin dal 2008
e Luigi Amore l’uomo che aveva condotto l’ispezione del 2001. Nel 2011 era stato nominato vicepresidente Andrea Monorchio l’ex
potentissimo direttore generale del Tesoro. Ad essi s’aggiungono magistrati in pensione (tra i quali
quel Fojadelli che aveva archiviato l’inchiesta del 2001) e ufficiali della
finanza. Uno schieramento singolare, una batteria di fuoco imponente rimasta
alla fine senza cartucce perché in realtà è proprio la banca centrale a scoperchiare
il pentolone magico.
L’ispezione
del 2014 rivela che la popolare di
Vicenza aveva comprato azioni proprie senza chiedere l’autorizzazione e
“mette in luce un diverso problema, vale a dire quello delle azioni
finanziate”. La BPV non aveva dedotto “per
un ammontare cospicuo” dal patrimonio di vigilanza il capitale raccolto a
fronte di finanziamenti erogati dalla stessa banca ai sottoscrittori delle sue
azioni. Ciò ha provocato un buco di
circa un miliardo di euro al quale
si aggiunge il deterioramento del
portafoglio creditizio, che ha comportato la contabilizzazione di 1,3
miliardi di euro di rettifiche di valore nel bilancio 2015 (+54% rispetto
all’anno precedente). Le operazioni baciate, come vengono chiamate in gergo,
sono concesse “a patto che i relativi finanziamenti siano autorizzati
dall’Assemblea straordinaria” e “che le azioni non siano conteggiate nel
patrimonio di vigilanza”. Sia la Popolare
di Vicenza sia Veneto Banca,
invece, le hanno praticate per mostrare una solidità che in realtà era solo
frutto di una partita di giro, visto che i
crediti concessi alla clientela rientravano in parte sotto forma di azioni.
Gli investitori ottenevano in cambio
tassi agevolati, una cedola annuale
oppure la “ricompensa” di un euro per ogni azione quando la banca,
attraverso il fondo che avrebbe dovuto regolare e movimentare il mercato
interno dei soci, ricomprava le sue stesse azioni dal cliente. Dal gennaio del
2014 era richiesta l’autorizzazione della Bce per ogni riacquisto, ma Popolare
di Vicenza ricomprava azioni con
disinvoltura, fino a quando il fondo non è stato bloccato e l’azione è divenuta
illiquida, impossibile da vendere. Molti, a cominciare dalla Lega, gettano la colpa sulla riforma delle popolari, rimpiangendo il bel tempo in cui il valore
di una azione veniva deciso a tavolino dai soci, magari senza perizie
indipendenti, come era successo a Vicenza. Allora c’era champagne per tutti
come nella cantina di Auerbach quando il dottor Faust ne cavalcava le botti. Ma
a partire dal 2015 tutto questo non è più possibile, quel piccolo mondo antico
fatto di amicizie, collusioni, clientele, svanisce.
Molti
soci di prima classe mangiano la foglia e scappano. La
fuga dalla nave che affonda comincia proprio nel 2014 e mese dopo mese
s’arricchisce di nomi: Giuseppe Stefanel, Renzo Rosso, la banca IBL, le
Autostrade del Brennero, Giuseppe Zigliotto, allora presidente della
Confindustria vicentina (la terza in Italia per associati), Giovanni Roncato,
Luca Marzotto, il cognato di Zonin e consigliere della banca, Roberto Pavan.
S’aggiungono ai vecchi “soci eccellenti” come la Cattolica assicurazioni, le
Generali, Ferrarini il re dei salumi locali, Zigliotto della Confindustria
vicentina (uscito prima del crac), la Fondazione Roi (ha investito nella banca
29 milioni che oggi valgono un decimo), la Fondazione cassa di Prato e persino
Stefano Dolcetta della Fiamm (accumulatori) il quale aveva preso la presidenza.
Non c’è dubbio, era davvero una banca di sistema e il sistema bancario cerca di
salvarla, sensibile ai gridi di dolore che vengono anche dal sistema politico,
soprattutto dalla Lega che governa il Veneto, ma non solo.
Prima fallisce
un tentativo di andare in borsa, nonostante
la garanzia di Unicredit; è un flop che contribuisce alla uscita di
Federico Ghizzoni, l’amministratore delegato della grande banca milanese. Poi
ci prova il fondo Atlante nato
soprattutto ad opera di Giuseppe Guzzetti con la Cariplo, proprio per impedire
che la crisi della popolare vicentina inneschi un effetto domino cadendo,
innanzitutto, su Unicredit. Atlante, guidato da Alessandro Penati, investe un
miliardo e mezzo di euro, ma non ce la fa; a quel punto si leva un coro di voci
per chiedere un salvataggio di stato e la più acuta è ancora una volta quella
della Lega. Dichiara Luca Zaia nel giugno 2017: “Il bail-in costerebbe 11
miliardi al fondo interbancario di garanzia, per salvarle basterebbe invece
solo un miliardo. Mi sembra logico che convenga investire questo miliardo fregandosene
dell’Europa per garantire i risparmiatori e salvaguardare i loro risparmi”. La Popolare di Vicenza insieme con Veneto Banca, finirà a Intesa Sanpaolo al costo simbolico
di un euro. Il Tesoro guidato da Pier
Carlo Padoan sborsa 4,8 miliardi di
euro liquidi e 12 miliardi sotto forma di garanzie. Un anno dopo Eurostat
certifica che il costo sui conti pubblici per le due venete è stato di 4,7
miliardi di euro che pesano per 11,2 miliardi sul debito. Zaia non ha fatto bene i conti, o forse li ha fatti per i suoi
elettori, ma non per il resto degli
italiani. Per loro ci saranno la flat tax e le pensioni anticipate. Chi
paga? Pantalone che a quanto pare ha messo le braghe giallo-verdi. Finché
reggeranno le bretelle.
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