venerdì 12 febbraio 2021

Né Mediaset, né Rai, né Sky. Certe cose le fa solo Netflix

 

 

da: Domani – di Fabio Guarnaccia

La piattaforma di streaming ha un mix di ingredienti che ne stanno decretando il successo internazionale. Come nessuna altra realtà, può contare sul budget e la libertà per dare vita ai suoi prodotti originali

Pare che dopo La regina degli scacchi, il finto biopic di  Netflix su una prodigiosa scacchista orfana  e alcolizzata, le vendite di scacchi su eBay siano aumentate del 250 per cento e che il numero di  giocatori presenti su  chess.com sia quintuplicato. Recentemente si è molto discusso della capacità di Netflix di incidere sulla realtà, si pensi, per venire all’Italia, al caso di SanPa e all’influenza che ha avuto sulla nostra agenda culturale e politica.

Per quanto mi sembri eccessivo attribuirle  tutto  questo  potere,  è  senz’altro  vero  che  l’azienda  di  Los Gatos ha  raggiunto  una  dimensione che ne fa qualcosa di più di un servizio on demand di serie e film. SanPa avrebbe ottenuto tutta questa attenzione sui media se fosse stata fatta da Rai, da Mediaset, da Sky? È una domanda che contiene alcune trappole, ma è utile da porre.

Netflix in Italia

Netflix arriva in Italia nel 2015, nello stesso anno di  Australia, Giappone e Spagna, tre anni

dopo lo sbarco in Germania e Inghilterra, e due dopo la Francia. L’anno successivo,  al  Ces  di  Las  Vegas,  una delle più importanti fiere di settore,  Reed  Hastings,  dopo  48  minuti di showcase, annuncia che il servizio diventa globale, restano fuori solo Cina, Corea del Nord, Siria e Crimea.

Andrebbe precisato, come fa Ramon Lobato  nel  suo  Netflix  Nations (Minimum fax), che non esiste una sola Netflix nel mondo, ma tante quante sono i paesi nei quali è presente: cambiano i cataloghi, il costo degli abbonamenti, le normative, la velocità di banda, il successo culturale ed economi- co. Ma è pur vero che il marchio è lo stesso e si porta dietro la stessa aura. Così quando Netflix arriva in Italia è già sinonimo di disruption  (in  Italia  potremmo  pure  chiamarla “rottamazione”) e di libertà. È il sogno realizzato del progressismo, è la tv che guarda Obama, la tv a forma di Silicon valley. Gli argomenti di Netflix a favore della sua novità sono molteplici e la  comunicazione  aziendale  ne  ha   saputo   sfruttare  al  meglio  ogni retorica. Anche se all’inizio Netflix è un fenomeno per pochi, in Italia come nel resto d’Europa, quei  pochi  non  sono  persone qualsiasi ma gatekeepers, come si chiamavano un tempo e che oggi, moltiplicatisi come gremlins, sono diventati influencer. Così, a fu- ria di parlarne il numero degli abbonati cresce. La platea non è composta più  solo  dagli  innovatori  ma si radica all’interno della fami- glia italiana.

È impossibile dire con esattezza la penetrazione di Netflix nel nostro paese perché, com’è noto, è un dato che l’azienda non dichiara, ma secondo diverse stime, per esempio quelle di Digital research, il numero magico si aggira intorno ai quattro milioni di abbonamenti. Un parterre considerevole, quindi, anche se non tutti usano il servizio ogni giorno, a differenza di quanto accade per la tv.

Il modello

Nel 2020 la cifra investita nell’acquisto e produzione dei contenuti è stata di circa 17 miliardi di dollari. Ripeto: 17 miliardi. Avere una mole di contenuti sempre fresca fa parte del modo peculiare in cui funziona la macchina di questo colosso: nuove uscite ogni setti- mana, così tante che è impossibile per chiunque tenere il passo. Sono necessarie a restituire un’idea di ricchezza per tutti i palati, in modo da trattenere nella propria orbita chi è già abbonato e portar- ci chi ancora non lo è.

Perché gli abbonati sono l’indicatore primario della ricchezza di Netflix, le fondamenta della sua fortuna, che è finanziaria e non industriale.  Il  valore  delle  sue  azioni sul mercato cresce trimestre   dopo   trimestre   sostenute  dall’aumento del numero di abbonati nel mondo: 50, 100, 200 milioni. Così nel 2020, in piena pandemia, supera persino la capitalizzazione di Disney.

Per chi venisse dal Novecento il successo di Netflix sarebbe inspiegabile, dal momento che spende più di quello che guadagna. Apparirebbe un po’ come il presunto talento del calabrone: con quel corpo lì, quelle alucce così, mica potrebbe volare mai, eppure vola. Fino a che cresceranno gli abbonati, Netflix continuerà a prospera- re, poi dovrà alzare i prezzi o introdurre una quota di pubblicità, o vendere. Non c’è quindi da stupirsi che l’azienda continui ogni an- no a investire cifre all’apparenza così   spropositate.   Ovviamente,  più titoli produci più aumenti le possibilità di fare flop ma anche di trovare quelle perle che sono in sintonia con ciò che vai dicendo in giro del tuo brand. Nonostante le parodie che circola- no da tempo, Netflix non produce tutto quello che le viene  proposto.  I  criteri sono molteplici e poggiano sull’enorme mole di dati che macina ogni singolo secondo della sua vita. Quali showrunner,  registi,  attori  mettere sotto contratto? Cosa comprare?  Cosa   produrre per  andare  incontro  alle  esigenze di tutte quelle nicchie che ricomposte danno vita a un’audience di massa globale? Netflix  ha  inventato  un’offerta  per un pubblico che non è l’élite (quella è Hbo) e non è il nazional- popolare. La sua è piuttosto un’i- dea di élite di massa, qualcosa che nel mondo dei marchi, soprattutto di moda, ha preso piede da qual- che tempo con il nome di mastige: il prestige per le masse. È una categoria molto più diffusa di quanto pensiamo nelle nostre vite: è la cucina gourmet accessibile, sono i mobili di design per tutti, sono i filtri Instagram con i quali rendiamo migliore la nostra vita. Netflix ha trovato la formula alchemica per sintetizzare un ibrido tra la più esclusiva pay tv e la televisione commerciale. Vive di forze contrapposte  che  si  rispecchiano e  trovano il loro equilibrio dinamico istante dopo istante all’interno di un catalogo che offre tutto e il suo contrario. Una scienza che oltre  all’analisi  dei  dati  di  consumo  della piattaforma ha bisogno di un’analisi costante dei gusti  e  delle  tendenze,   soprattutto sui social. In un sistema di questo tipo è del tutto naturale  che  nascano successi globali e locali, com’è successo con SanPa. Se ci soffermiamo su questo titolo dal punto di vista delle tendenze interne ed esterne a Netflix ci troviamo da- vanti a: il tema delle dipendenze (centrale nei teen drama presenti sulle piattaforme, dalla droga al sesso; così come nei numerosi do- cu dedicati ai due temi); il tema del controllo (dalle distopie ai social); quello dell’impegno civile/denuncia sociale (Sotto la mia pelle, When They See Us, un numero imprecisato di docu), l’ossessione per i personaggi larger  than  life  (Wild Country, Tiger Man). Come nota Dario Rossi su Le paro- le e le cose, cos’altro è SanPa se non la  versione  locale  di  Wild   Country, con Vincenzo Muccioli al posto di Bhagwan Shree Rajneesh (Osho)? Senza contare la smania italiana  per  personaggi  che  rispondono al tipo del “giustiziere”, ovvero,  colui  che  in  ragione  di  una personale e insopprimibile  etica si sostituisce a uno stato assente nel praticare giustizia. SanPa ha  saputo  fare  anche di più, ha denudato il mito degli an- ni  Ottanta,  altra  presenza  forte  sulla piattaforma (Stranger Things).

Questione di stile

C’è poi il tema dello stile, che non è secondario. Nel mondo seriale Netflix  ha  codificato  una  certa  estetica funzionale alla comunicazione del suo marchio con la prestige tv: una serialità che fa ricorso alla forza dei nomi, grandi registi, showrunner, attori. Nomi che dicono il valore del prodotto senza neppure il bisogno di veder- lo. Ci sarà tempo per restarne delusi, in caso, ma ancora prima della messa in onda è già un successo. Rientrano in questa categoria più o meno tutti i film e le serie che Netflix promuove con maggiore forza su scala internazionale. Ma così come ha declinato una versione più accessibile della serialità complessa di Hbo, Netflix ha saputo anche nobilitare il factual con produzioni di grande impatto basate  sull’estetica  della  non  fiction, con storie prese dalla realtà ma costruite come fossero una serie tv. Laddove non c’è una vera libertà creativa, perché è la realtà che disegna i contorni delle vicende, entra in gioco la disposizione dei fatti, la creatività del montaggio, l’uso delle tecniche narrative messe a punto dalla letteratura prima, e dalle serie tv poi. Fino a dare vita a un ibrido che è la quintessenza dal factual, del sembra vero. Che poi significa intrattenersi mentre si ha l’impressione, o l’illusione, fate voi, di imparare qualcosa di utile. C’è un pubblico, quello più evoluto, che ha sempre bisogno di una giustificazione per potersi divertire. Capolavoro di questo genere perfezionato da Netflix è forse Making a Murderer, il ti- tolo a cui Gianluca Neri, creatore di SanPa, ha dichiarato di avere guardato a modello.

Visto col senno di poi, quindi, non stupisce che  SanPa  abbia avuto  tanta attenzione, è una serie perfettamente a suo agio in questo tempo. Oggi Netflix è nella posi- zione per dire agli spettatori che qualcosa è eccezionale, ha il budget e la libertà per farlo (anche per- ché  è  regolata  da  norme  meno  stringenti rispetto a quelle di un editore tv), ha tutti i dati che le servono, delle carte di credito e persino dei nostri sospiri mentre guardiamo qualcosa, ha la stampa ai piedi e la politica che più volte l’ha usata come modello da segui- re, ha la forza di presentare qualcosa come unico e, in un certo senso, ha ragione.

Torniamo alla domanda iniziale, cioè  se SanPa avrebbe ottenuto questa attenzione se fosse stata fatta da altri. La risposta è che né Rai, né Mediaset, né Sky, per il loro modello, l’avrebbero prodotta. Al più, Rai ci avrebbe fatto un’inchiesta per Report, Mediaset uno speciale delle Iene, Sky una serie. Questa  tipologia  di  prodotto,  il  suo stile e il suo linguaggio, non hanno spazio nell’offerta di queste tv. E comunque, nessuna di esse avrebbe potuto contare su quel Netflix effect, risultato delle forze di cui abbiamo parlato, che è attualmente un potente ingrediente magico.

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