venerdì 5 febbraio 2021

La “Draghinomics”: ecco cosa potrebbe fare

da: Il Fatto Quotidiano - di Alessandro Bonetti

Leggendo tra le righe. Gli ultimi (generici) interventi e le possibili applicazioni: chi salvare ora che “i sussidi finiranno”, la questione Mes e la partita sui vincoli Ue

La Draghi-mania ha coinvolto un po’ tutti, da Confindustria ai sindacati, dal centro-sinistra alla destra. L’esaltazione bipartisan per l’ex presidente della Bce nasce dalla sua fama di salvatore dell’euro e baluardo contro il rigore nordico in Europa. Come negare che il “whatever it takes” abbia avuto un ruolo decisivo per l’eurozona? Ma Draghi potrà fare “tutto il necessario” per salvare l’Italia? E, soprattutto, quale Italia? Quella delle imprese dell’export cresciute negli anni pre-Covid o quella dei milioni di disoccupati? Per rispondere a questa domanda bisogna partire dall’articolo scritto proprio da Draghi sul Financial Times il 25 marzo 2020 che segna la nuova fase del discorso pubblico dell’economista.

A marzo Draghi sottolineò come in una crisi non ci sia da preoccuparsi del debito dello Stato, perché la priorità è salvare l’economia: “La perdita di reddito in cui incorre il settore privato – e ogni debito assunto per rimarginarla – deve alla fine essere assorbito, in tutto o in parte, dal bilancio del governo”. Parole non equivocabili. Non siamo più nell’epoca dei tagli, anche se alcuni sembrano non essersene accorti: molti sono i tifosi di Draghi che forse non sanno che il loro idolo, in un discorso del 23 settembre 2019, aprì persino alla Mmt.

Una volta seppelliti i dogmi (“un cambiamento della mentalità è tanto necessario in questa crisi quanto lo sarebbe in tempi di guerra”), bisogna capire come spendere. Draghi sul FT scrisse che bisognava evitare “una permanente distruzione della capacità produttiva”. Non si può non essere d’accordo. E proprio per questo sorge qualche dubbio. Draghi non dice cose straordinarie. Afferma semplicemente la nuova vulgata. Ma da questa vulgata i temi chiave sono lasciati fuori. Si vuole un ritorno della politica industriale? Si propongono massicci investimenti pubblici? O una semplice socializzazione delle perdite?

La risposta non emerge neanche se si studiano le altre recenti uscite del nostro. Il premier in pectore avallerà il ritorno al Patto di Stabilità o lancerà una lotta senza quartiere per tenersi le mani libere? La caratura internazionale per cambiare le regole europee c’è tutta. Ma la volontà politica? Certo, nel suo ultimo discorso all’Europarlamento come presidente della Bce, Draghi aveva detto che le regole europee andavano “riviste”. L’uomo che mandò alla massima potenza la stampante di Francoforte non potrà accettare un ritorno puro e semplice ai vecchi vincoli.

Anche per questo è improbabile che chieda l’accesso al Mes. Sarebbe una beffa chiedere l’attivazione di uno strumento di cui è stato implicitamente un avversario. Il whatever it takes prima e il Quantitative easing poi hanno reso un relitto lo strumento che doveva garantire in teoria la stabilità finanziaria dell’Eurozona: dall’intervento straordinario della Bce nessuno è più stato costretto a ricorrere all’ex fondo salva Stati (gli ultimi Spagna e Cipro nel 2012). Ma c’è anche una questione politica: a meno di non essere in serie difficoltà, Draghi non si abbasserebbe mai a domandare il sostegno di un organismo tanto criticato e problematico, che Monti si rifiutò di utilizzare quand’era in carica e con mercati assai più agitati di quelli attuali.

La questione che resta, però, è sempre quella degli obiettivi. Di fronte a un crollo verticale di consumi, occupazione e produzione, a quali settori darà la priorità il nuovo premier? A stare ai suoi interventi passati non tutti possono stare tranquilli. “Ogni decisione economica ha conseguenze di carattere morale”. Questo scriveva il 9 luglio 2009 sull’Osservatore Romano l’allora governatore di Bankitalia. Questa tendenza a enfatizzare le questioni etiche si è notata anche al meeting di Rimini di agosto 2020. Ma, leggendo fra le righe di quel discorso, si intravede il vero messaggio, che è economico. Draghi è sicuramente in linea con la sensibilità della Commissione sul Recovery Fund: ambiente e digitalizzazione, insieme all’istruzione, furono temi centrali in quel discorso. Quanto a sussidi e ristori, a Rimini Draghi non li attaccò frontalmente – come sarebbe piaciuto a Confindustria, che ora gli chiede di abolire Reddito di cittadinanza e Quota 100 sulle pensioni – ma lanciò un avvertimento: “I sussidi finiranno”. E poi fece anche una distinzione fra “debito buono” (a fini “produttivi”, come investimenti nel capitale umano, infrastrutture cruciali per la produzione, ricerca) e “debito cattivo” (a fini “improduttivi”, non specificati). Una distinzione in cui è chiara la traccia di quel moralismo mainstream che ancora oggi confonde debito e colpa.

C’è un altro dettaglio da non sottovalutare. Draghi disse che per alcuni settori “un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia è improbabile”. Le conseguenze di questa considerazione sono state chiaramente esposte in un report di dicembre del “Gruppo dei 30”, nel cui comitato di direzione siede proprio Draghi. Un documento che incoraggia i governi a passare da un sostegno ampio all’economia a uno più mirato, “permettendo la riallocazione delle risorse”. Vanno sostenute solo le imprese che potranno essere in salute nell’economia post-Covid: bisogna “permettere alle forze di mercato di guidare, almeno parzialmente, il sostegno economico futuro”.

Ecco che riemerge la razionalità del vecchio mondo: il mercato è in grado di garantire la piena occupazione delle risorse nel lungo periodo. Con qualche imperfezione, certo, ma correggibile dalla mano pubblica. Che però, si legge nella presentazione, deve “ridurre la portata e il volume del sostegno che ha caratterizzato la politica economica nelle prime fasi della pandemia”. Che significa? In un convegno in Italia proprio per presentare il report del G30 si accennò a quel 20% di aziende che sono ormai ai margini del mercato, destinate a uscirne. Ammesso che sia giusta, la scelta tra “sommersi e salvati” della crisi è però eminentemente politica: per capire chi avrà cosa, forse lui stesso aspetta di capire chi lo sosterrà. Finora si è tenuto sul vago.

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