mercoledì 8 gennaio 2020

Luca Ricolfi: La società signorile di massa / 1



Introduzione

Se un marziano sbarcasse in Italia e dovesse informarsi ascoltando i notiziari, guardando le inchieste televisive, sfogliando i quotidiani, o leggendo libri di economia e sociologia, il quadro della nostra società che ne trarrebbe sarebbe più o meno di questo tipo:
- nell’ultimo ventennio, in Italia, come nel resto del pianeta Terra, le diseguaglianze fra gli umani sono cresciute “in modo esponenziale”;
- l’Italia è fondamentalmente un paese povero, in cui una massa di disoccupati cerca invano un lavoro che le permetta di condurre una vita dignitosa;
- milioni di persone sono privi dei più elementari diritti, come quello a una casa, alla salute, al cibo; li vediamo nelle città, fare la coda al “banco alimentare”, dove migliaia di volontari si sforzano di lenire le ferite più dolorose di un’umanità sofferente;
- 13 milioni di pensionati vivono con un assegno inferiore a 1000 euro al mese;
- i giovani sono esclusi dal mercato del lavoro regolare, e ingrossano le file dei disoccupati e sottoccupati;
- nei campi gli immigrati vengono impiegati in lavori defatiganti, per pochi euro al giorno e in condizioni di vita disumane;
- in edilizia i lavoratori stranieri sono addetti ai compiti più gravosi e pericolosi, con salari bassissimi, spesso in nero. 
Adesso però proviamo a cambiare le fonti di informazione. Supponete che il nostro marziano, anziché guardare la TV e leggere libri, decidesse di farsi un giretto nella penisola. Con suo grande stupore la vedrebbe piena di gente che non lavora, oppure lavora e trascorre degli splendidi fine settimana in luoghi di villeggiatura. Grandi città con le piazze piene di giovani che “apericenano”, spiagge invase dai bagnanti, luoghi d’arte presi d’assalto dai visitatori, eventi culturali e musicali che registrano il tutto esaurito. Famiglie che hanno due case di proprietà, o un televisore per stanza, o una barca ormeggiata in qualche porto turistico. Ristoranti pieni, cui si può accedere solo mediante prenotazione. Single che dedicano diverse ore la settimana alla cura del proprio corpo in palestre, spa, centrimassaggi. Persone di tutte le età che ricorrono a ogni sorta di esperti o presunti tali per gestire i propri dubbi esistenziali.
C’è qualcosa che non torna, penserebbe fra sé e sé il nostro marziano. A chi devo credere? Al racconto martellante e sostanzialmente uniforme di studiosi e mass media, o a quel che ho visto con i miei occhi?
Probabilmente a questo punto il marziano, finita la gita, se ne tornerebbe a casa sua archiviando l’enigma Italia come un caso confuso, anche se molto interessante.
E lasciamo che il marziano se ne torni serenamente su Marte. Il problema resta a noi. A chi credere? Al racconto o ai nostri occhi? Perché, in fondo, marziani lo siamo un po’ tutti: quando giriamo per le nostre città e piccoli borghi anche noi “vediamo” qualcosa che sembrerebbe contraddire la narrazione ufficiale, quella degli studiosi e dei mass media.
Col lasciarci portare dagli occhi finiremmo dunque con la famosa battuta di Berlusconi, di una decina di anni fa, che già allora ai più parve piuttosto superficiale ed estemporanea, e che suonava più o meno così: ci sarà anche la crisi, ma io vedo i ristoranti sempre pieni. Oppure finiremmo con l’aggregarci allo stuolo di amici, colleghi, vicini di casa, sconcertati dalle piazze affollate alle tre di notte, dove centinaia di giovani sostano ai tavolini dei bar o ciondolano davanti ai locali con una birra in mano.
Col dar retta alla narrazione dominante, invece, dovremmo convincerci che viviamo nel peggiore dei mondi possibili, dove un numero crescente di famiglie è sotto la soglia di povertà, milioni di individui non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, nessuno trova più lavoro e chi lavora viene pagato quasi niente.
Due mondi contrapposti e paralleli? Due modi diversi di interpretare la stessa realtà? O la solita favola del “Re nudo”, per cui il marziano-bambino è l’unico a vedere le cose come stanno, e tutti gli altri ipocritamente fingono? O, ancora e semplicemente, la regola consueta per cui ognuno vede quel che vuole vedere, e la verità è irraggiungibile per definizione?
L’occhio, per chi fa un mestiere come il mio, non è certo uno strumento affidabile.
E il racconto (o la “narrazione”, come da qualche tempo si preferisce dire), oggi più che mai, è parziale e fazioso. Chi racconta, infatti, sono perlopiù tre categorie di persone: i politici, che per prendere più voti e giustificare la propria esistenza amplificano e generalizzano i problemi che toccano gli strati più svantaggiati della popolazione; gli operatori dei media (giornali, radio, TV) che, rivolgendosi al grande pubblico, tendono a selezionare gli aspetti della realtà che possano riscuotere maggiore audience; gli intellettuali che, più o meno accecati da un’ideologia, enfatizzano i temi che più confermano e surriscaldano quella medesima ideologia. Il risultato è che, in generale, si è innescata una gigantesca macchina retorica intorno a tutto ciò che ha più possibilità di suscitare sentimenti di pietà e indignazione, dipingendo un quadro quasi apocalittico dove imperano povertà, disoccupazione, sottoccupazione, omettendo però di specificare che si sta parlando di una minoranza della popolazione. Mentre l’esperienza diretta finisce inevitabilmente per mostrare quel che succede alla maggioranza, e che è tutt’altro che drammatico.
Il bello è che questo dualismo, questa oscillazione fra la denuncia di immani problemi sociali e l’adozione di un’immagine tutto sommato rassicurante della società in cui viviamo, la ritroviamo pari pari all’interno delle scienze sociali. Se guardiamo alle grandi indagini empiriche, quasi sempre il focus è su qualche patologia sociale: la devianza, la disoccupazione, la povertà, il precariato, i conflitti etnici, i profughi, il disagio giovanile, il lavoro nero, la criminalità comune, la mafia, il bullismo, la droga, la violenza sulle donne, un elenco che non avrei difficoltà a continuare per diverse pagine.
Se invece guardiamo ai grandi tentativi di cogliere l’essenziale del nostro tempo, ovvero ciò che rende la nostra società diversa da tutte quelle del passato, il quadro è quasi sempre ottimistico: se si eccettua un manipolo di definizioni pessimistiche, neutre o ambivalenti, il grosso degli “affreschi” tentati da sociologi, economisti, politologi, psicologi ha un accento essenzialmente ottimistico. C’è chi sottolinea il progresso rispetto al passato, e parla di società postmoderna, postindustriale, postcapitalista. C’è chi sottolinea il benessere conquistato, e parla di società dei consumi, società opulenta (o “affluente”). C’è chi sottolinea il ruolo del sapere, e parla di società dell’informazione, della conoscenza, o dell’apprendimento. C’è, infine, chi sottolinea la dimensione relazionale, e parla di società della comunicazione, società della conversazione, società relazionale, o network society (per un quadro storico delle varie definizioni e dei vari autori vedi box a fianco).
È come se, nella definizione sintetica della società in cui viviamo, quando si cerca di condensare in un aggettivo o in un singolo termine il suo tratto essenziale, non riuscissimo a resistere alla tentazione di connotare il nostro oggetto, dipingendolo o come sostanzialmente positivo (il più delle volte), o sostanzialmente negativo (assai più raramente).
Che fare, dunque? Come raccontare il tipo di società in cui siamo gettati?
Forse, il marziano saggio che è in noi dovrebbe limitarsi a non adottare acriticamente uno dei due punti di vista, posto che, in fondo, c’è del vero in entrambi i resoconti, ossia tanto nel racconto dominante, quanto nell’esperienza diretta. E dovrebbe concludere, in modo salomonico, che l’Italia è un paese ricco e felice, in cui tuttavia permangono sacche di povertà e diseguaglianza, che alcuni enfatizzano e altri preferiscono ignorare.
Questa soluzione non mi convince. L’Italia di oggi a me non pare una società del benessere con una più o meno piccola anomalia al suo interno, che il tempo e riforme illuminate potrebbero incaricarsi di correggere. A me le due facce – opposte e speculari – che si presentano al marziano sembrano strettamente connesse: come cercherò di spiegare più avanti, l’esistenza di alcuni ben precisi strati inferiori della piramide sociale (i “poveri”, nel racconto dominante) è strettamente necessaria al modo di vivere degli strati che del benessere sono i principali beneficiari. Da questo punto di vista, anche la suggestiva figura della “società dei due terzi”, introdotta da Peter Glotz nel 1987, in un’epoca in cui i flussi migratori verso l’Europa erano ancora decisamente modesti, appare quantomeno inattuale, per non dire fuorviante. Il discorso sulla società dei due terzi (o dei tre quarti, come altri preferiranno dire), caro soprattutto alla sinistra liberale, tende a riformulare il conflitto fra sinistra e destra come un mero problema di inclusione, con la sinistra impegnata a includere, e la destra a escludere. Il che suggerisce che lo strato inferiore della piramide sociale sia essenzialmente una realtà “non ancora” inclusa, piuttosto che un ingranaggio fondamentale del funzionamento del sistema sociale.

Nessun commento:

Posta un commento