giovedì 16 gennaio 2020

Carlo Panella: Mandare i nostri soldati in Libia sarebbe un atto suicida e inutile



Chiunque abbia una minima frequentazione con i fatti di guerra sa bene che non è possibile fare da interposizione in un contesto di guerriglia urbana come quella in atto a Tripoli. Chiunque tranne il nostro governo. 


Alla fase delle gaffe degli incontri a vuoto con i leader libici, alla quale non è sfuggito neppure Vladimir Putin, ora l’Italia di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio (e l’Ue con loro) fa seguire quella che non possiamo che chiamare la fase delle farneticazioni avventuriste.

Altro termine non c’è, infatti, per definire la proposta partita dal nostro ineffabile e indefinibile ministro degli Esteri di inviare a Tripoli una forza militare di interposizione Ue (con perno sull’Italia) sul modello della Unifil libanese.

Chiunque abbia una minima, minimissima, frequentazione con i fatti di guerra sa bene infatti che non è possibile fare da interposizione in un contesto di conflitto e guerriglia urbana, come è quella in atto a Tripoli, se non al prezzo di pagare pesantissime perdite di soldati (anche italiani), con un esito peraltro fallimentare. Né ha il minimo la precondizione posta da Di Maio e da Conte di un intervento militare boots on the ground solo dopo la firma di una tregua tra le parti.

TERRITORIO URBANO TROPPO PERICOLOSO PER TRUPPE DI TERRA
Ammesso e non concesso che Haftar e al Serraj siglino questa tregua, non si sfugge a un dato di fatto: la forza militare di interposizione si deve, si dovrà disporre dentro uno spazio urbano (i quartieri periferici di Tripoli), letteralmente tra strade e palazzi,
con cecchini e nidi di mitragliatrice dei due eserciti di fronte e alle spalle, a una distanza di poche, pochissime centinaia di metri.

Uno scenario da incubo, impraticabile, nel quale i nostri militari, assieme a quelli della Ue, non possono, non potranno fare altro che da bersaglio, con scarsissime, nulle, possibilità di difesa. È infatti giocoforza che gli uni e gli altri contendenti libici (che si definiscono a vicenda «terroristi» e «criminali di guerra», non potranno desistere dal creare situazioni di continue provocazioni, con lo scopo peraltro di fare cadere sull’avversario la responsabilità di avere infranto la tregua. È un dato fisiologico, ineliminabile.

UN CONTESTO TERRIBILMENTE SIMILE A QUELLA DI MOGADISCIO NEL 1993
Chi si propone oggi come forza di interposizione in Libia deve ripetere dieci, mille volte queste parole: «Check point Pasta!», «Check point Pasta!», «Black Hawk down!», «Black Hawk down!». Deve ricordare insomma la dinamica della battaglia di Mogadiscio del 1993 (ma Di Maio aveva sei anni!), appunto in un contesto di guerra e guerriglia urbana nella quale caddero ben 13 militari italiani, 19 militari americani, 23 militari pakistani e migliaia di miliziani somali, alleati o avversari della missione Onu Unosom. Un grande contributo di sangue per una missione miseramente – e anche vergognosamente – fallita in toto, alla quale seguì un totale disimpegno, senza aver conseguito nessun risultato.

Citare oggi, come fanno Di Maio e Conte, il successo della azione di interposizione della missione Unifil in Libano rivela un’inquietante realtà: non hanno la minima idea di quello che dicono e quindi del contesto radicalmente diverso dei due scenari. In Libano la forza di interposizione Onu è schierata a ridosso di un confine ben definito e delineato che passa per campi, colline, agrumeti e leggiadri boschi. Una fascia larga decine di chilometri, in piena campagna dai larghi, larghissimi spazi, disseminata a distanza di chilometri l’uno dall’altro di ameni villaggi. In Libia la linea del fronte passa attraverso il dedalo dei palazzi e delle strade della periferia di Tripoli, con distanza di un centinaio di metri tra le due milizie. Un incubo di canyon, regno dei cecchini.

PARLANO DI INTERPOSIZIONE, MA INTENDONO FARE AMMUINA
È evidente insomma il pigro e dilettantesco meccanismo politico che porta ora Di Maio e Conte (ma anche l’Europa) a parlare di «interposizione». Partono dall’assunto – sbagliato – che non si deve scegliere di appoggiare nessuno dei due contendenti. Partono, dall’alto, non dalla conoscenza del teatro concreto di guerra, partono dal principio che ci si impegna militarmente solo per «pacificare», quindi ci si interpone, si media, si passa di riunione in riunione.

A meno che – peggio del peggio – non si intenda “interporsi” non a terra, ma solo pattugliando il mare e i cieli con la missione Sophia per far finta di aver fatto qualcosa per impedire ai due eserciti di essere riforniti di armi. Ma gli armamenti possono arrivare e arrivano copiosi in Libia via terra, dai porosissimi confini con l’Egitto, Ciàd, Sudan e Niger per Haftar e dalla Tunisia (complice probabilmente l’Algeria) per un al Serraj che infatti ha stretto rapporti recenti con i due governi, veicolati dalla comune appartenenza delle forze che di fatto sono il baricentro politico dei due Paesi, all’area politica della Fratellanza Musulmana. Insomma una “interposizione” di facciata, una “ammuina”. Specialità nella quale Di Maio e Conte (e l’Europa) sono maestri.

Nessun commento:

Posta un commento