mercoledì 15 gennaio 2020

Luca Ricolfi: La società signorile di massa / 2


La tesi che vorrei difendere in questo libro è che l’Italia non è una società del benessere afflitta da alcune imperfezioni, in via di più o meno rapido riassorbimento, ma è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale. La chiamerò “società signorile di massa” perché essa è il prodotto dell’innesto, sul suo corpo principale, che resta capitalistico, di elementi tipici delle società signorili del passato, feudale e precapitalistico. Per società signorile di massa intendo una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano.
Con questo, sia ben chiaro, non intendo esprimere alcun giudizio di valore, come perlopiù hanno fatto quanti hanno provato a condensare in una singola espressione quel che ci distingue dalle società del passato. La società signorile di massa è un tutto unico, internamente coerente, che va innanzitutto compreso nelle sue strutture e nel suo funzionamento, al di là di ogni giudizio politico o morale, che inevitabilmente dipende dalle preferenze e inclinazioni di ciascuno.
Devo subito dire, a questo punto, che l’uso dell’aggettivo “signorile” per qualificare il tratto distintivo dell’Italia di oggi deve molto a quel che, da giovane, mi è accaduto di recepire dell’insegnamento di Claudio Napoleoni, un maestro di cui ho avuto la fortuna di essere allievo, e che ha segnato profondamente il mio modo di vedere l’Italia.
I concetti di “società signorile” e di “consumo signorile”, negli anni in cui ebbi l’occasione di frequentare i suoi corsi, erano centrali nel suo pensiero. Il punto su cui non cessò mai di insistere è che l’essenza della società signorile è l’esistenza di un gruppo sociale, in passato
costituito dai nobili, dai guerrieri e dal clero, che ha il privilegio di consumare il sovraprodotto, o surplus, senza contribuire in alcun modo alla sua formazione. Per Napoleoni era il “consumo signorile” dei ceti parassitari, e non lo sfruttamento del lavoro operaio da parte dei capitalisti, il vero male della società italiana. Perché in realtà gli imprenditori o capitalisti, con il loro lavoro, partecipano attivamente alla produzione del surplus, mentre lo sfruttamento – nella sua essenza – è un rapporto fra chi accede al surplus senza aver contribuito alla sua formazione e chi il surplus lo produce senza potervi accedere. Il vero sfruttatore è il signore che non lavora e consuma il surplus, non l’imprenditore-capitalista che contribuisce a produrlo.
Non so quanto esatta filologicamente sia questa ricostruzione, in parte basata su ricordi personali di lezioni e interventi in seminari, ma sta di fatto che, da allora, la componente parassitaria della società italiana, fatta di rendite, privilegi, mercati protetti, sprechi, ipertrofia dell’apparato pubblico, ha sempre attirato la mia attenzione, fin dalla metà degli anni settanta, quando l’allarme per la deriva assistenziale del nostro paese improvvisamente si diffuse fra gli studiosi. Ciononostante, fino a pochissimi anni fa, mi sono sempre trattenuto dall’usare l’aggettivo “signorile” per qualificare la società italiana. A trattenermi, almeno negli anni settanta e ottanta, erano soprattutto due circostanze: la prima è che la diffusione dei consumi più opulenti era ancora incompleta e imperfetta; la seconda è che l’economia italiana, a dispetto di tutti i suoi squilibri e le sue storture, continuava a crescere a un ritmo sostenuto, superiore alla media degli altri paesi europei. L’Italia, in breve, era sì una società ricca, ma non era ancora una società “arrivata”, stabilizzata in una condizione di opulenza.
È il caso di ricordare che, oltre che per l’esistenza di un consumo cospicuo cui non corrisponde alcun lavoro, le società signorili del passato si caratterizzavano per la loro staticità. Come tutte le società del passato erano, per usare l’efficace distinzione di Lévi-Strauss, società “fredde”, senza crescita o con una crescita lentissima, diversamente dalle società capitalistiche, “calde” perché soggette al moto permanente loro impresso dal capitale. Insomma, per parlare di società signorile senza allontanarci troppo dal suo archetipo, occorre che il consumo signorile sia in qualche modo stabilizzato. Una società signorile è, anche, una società in stagnazione.
Ora, queste ultime due condizioni, consumo opulento + fine della crescita, in Italia si sono realizzate compiutamente solo nell’ultimo decennio, ovvero con la lunga crisi seguita al fallimento di Lehman Brothers (settembre 2008). E lo hanno fatto in un modo che lascia interdetti: ora la condizione signorile, ovvero accedere al surplus senza lavorare, non è, come nelle società signorili vere e proprie, nonché nella stessa società italiana del passato, un privilegio riservato a una minoranza, ma una condizione altamente ambivalente che tocca più della metà dei cittadini. Ciò accade non solo perché sono tantissimi coloro che non lavorano, ma perché – come vedremo in dettaglio nel capitolo 3 sulla condizione signorile – sono i redditi stessi a provenire sempre più da fonti diverse dal lavoro, come le rendite e i trasferimenti assistenziali.
Ecco perché, nel qualificare la società italiana come signorile, occorre aggiungere “di massa”.
Oggi, per la prima volta nella storia del nostro paese, ricorrono insieme tutte e tre le condizioni che permettono di parlare di una società signorile di massa:
(1) il numero di cittadini che non lavorano ha superato il numero di cittadini che lavorano;
(2) la condizione signorile, ovvero l’accesso a consumi opulenti da parte di cittadini che non lavorano, è diventata di massa;
(3) il sovraprodotto ha cessato di crescere, ovvero l’economia è entrata in un regime di stagnazione o di decrescita.
La prima condizione (più inoccupati che occupati), piuttosto sorprendentemente, era già stata raggiunta a metà degli anni sessanta; allora i consumi non erano ancora opulenti, ma il numero di occupati era già sceso a livelli preoccupanti, senza paragoni in Occidente.
La seconda condizione (consumi opulenti in assenza di lavoro) si perfeziona nel corso degli anni novanta, dopo quella che possiamo definire la “seconda transizione consumistica”, che estende e completa la grande trasformazione del miracolo economico.
La terza condizione (ingresso in stagnazione) si instaura poco per volta fra la metà degli anni novanta, in cui l’Italia comincia a crescere meno degli altri paesi europei, e la lunga crisi iniziata nel 2008, al cui termine l’Italia risulta l’unico paese europeo a crescita zero.

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