da: https://it.businessinsider.com/
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di Marianna Tognini
Fino a una decina di anni fa, le
Birkenstock erano i sandali – brutti – ai piedi dei backpackers che decidevano
di intraprendere avventurosi viaggi nel Sud-est asiatico o in Sudamerica. O,
peggio, dei turisti tedeschi in visita in Italia che li sfoggiavano senza
alcuna remora, magari accoppiandoli al calzino bianco d’ordinanza.
L’alone vagamente punitivo e in un certo
senso “monacale” posseduto dalle calzature teutoniche impediva loro di essere
prese in considerazione come valida alternativa a qualsiasi altro tipo di
sandalo, relegandole alla stregua di un acquisto “da vacanza” o da adoperare
tra le mura domestiche. La verità è che le Birkenstock erano – e sono tuttora –
comode sì, ma antiestetiche, per nulla slancianti e poco donanti. Averle non
costituiva certo un vanto, figuriamoci esibirle.
È notizia recente che Birkenstock abbia rifiutato una collaborazione con
Supreme «perché questa sarebbe solo una forma di
prostituzione», stando alle parole del Ceo Oliver Reichert. Parafrasato per i
non addetti ai lavori, un’azienda produttrice di sandali ortopedici (inutile
girarci intorno, la loro anima non è cambiata) sbatte la porta in faccia al brand di streetwear più cool del momento.
Per capire cosa sia successo nell’arco di
dieci anni, è tuttavia necessario fare un passo indietro di almeno duecento.
Un letto
per il piede
Siamo a Langen-Bergheim, una piccola città
vicina a Francoforte sul Meno, dove nel 1774 Johann Adam Birkenstock esercitava
la professione di calzolaio. Non è però lui il protagonista
della nostra
storia, narrata da Rebecca Mead sul New Yorker, bensì un
suo discendente, Konrad. Titolare di due negozi di calzature a Francoforte,
alla fine del diciannovesimo secolo ha un’intuizione che, per quanto semplice,
risulterà rivoluzionaria. Sebbene all’epoca le suole delle scarpe fossero
piatte, egli sovverte le regole, realizzando un plantare sagomato che avvolge e
supporta il piede. E non si ferma certo lì. Con l’aumento
dell’industrializzazione nel settore calzaturiero all’inizio del ventesimo
secolo, sviluppa delle solette di gomma flessibile da inserire all’interno di
qualsiasi scarpa commerciale, per creare un confortevole Fussbett, un
‘letto per il piede’.
Il Fussbett
esiste ancora oggi ed è diventato il marchio di fabbrica di Birkenstock, i cui plantari sagomati conservano lo stesso
nome. È grazie a tale prodotto che il brand si afferma nell’ambito
dell’ortopedia, mentre l’attività passa da Konrad al figlio Carl. Il successo
della calzature ortopediche non deve affatto stupire: la maggior parte dei
tedeschi ama fare lunghe passeggiate all’aria aperta, un retaggio che arriva
direttamente dalla cultura termale ottocentesca. Dopo i bagni nelle acque
termali venivano infatti caldamente consigliate camminate nei boschi, e
l’importanza di rafforzare il piede per mantenerlo in una posizione corretta
divenne via via centrale all’interno della corrente salutistica teutonica.
A Karl succedette poi il figlio Carl
Birkenstock, che negli anni Sessanta iniziò a produrre i sandali con il
plantare di sughero per cui oggi il marchio è famoso. Diverse leggende
aziendali raccontano che Karl intraprese esperimenti nel forno di casa, dove
cucinò una mescola di sughero e lattice per ottenere un materiale leggero e
resistente, ma che al tempo stesso sostenesse il piede. Il primo modello
di sandalo fu il Madrid, provvisto di plantare sagomato
in sughero e di una fascia con fibbia, la cui funzione era – va da sé –
ortopedica e non estetica.
A chi l’indossava, la calzatura doveva dare
la continua impressione di cadere, e il tentativo di fare aderenza con le dita
dei piedi contro la punta sagomata era propedeutico a tonificare i muscoli del
polpaccio.
Si deve però a una donna l’arrivo delle
Birkenstock negli Stati Uniti, e insieme alla loro “nuova vita” non solo come
scarpe ortopediche. Margot Fraser, nata nel 1929, era una nota sarta di Brema che
nei primi anni Sessanta sposò un americano, trasferendosi a vivere nel nord
della California. La signora soffriva di piedi doloranti, e durante un viaggio
in Germania nel 1966 acquistò un paio di Madrid. Ne rimase talmente soddisfatta
che, una volta tornata a casa, contattò Karl Birkenstock per proporgli di
importarle al di là dell’oceano.
Purtroppo la risposta non fu positiva, e i
commercianti di scarpe a cui Fraser si rivolse furono categorici: quei sandali
non avrebbero mai venduto. Margot però era convinta delle loro potenzialità, e
dietro suggerimento di un amico aprì uno stand alla fiera dei cibi salutari di
San Francisco. I suoi primi clienti furono i titolari di negozi di alimentari,
costretti a stare in piedi per l’intera giornata, e gli stessi misero in
vendita le Birkenstock sui loro scaffali, schiacciate tra confezioni di muesli
e di vitamine. Il successo non tardò ad arrivare, e – ironia della sorte – i
commercianti di scarpe che avevano inizialmente disprezzato il suo prodotto
presero a pregarla di rifornirli di sandali.
Da allora, nella storia del costume le
Birkenstock saranno a lungo associate con la controcultura americana, partendo
dagli hippy e dalle attiviste che si battevano per i diritti Lgbtq negli anni
Settanta. Via i tacchi, al rogo gonne e reggiseni: i semi del casualwear sono
stati gettati (anche) qui. Scrive Mead, sempre sul New Yorker: «Come la Earth
Shoe arrivata dalla Scandinavia nei primi anni Settanta, anche le
Birkenstock sono sempre state associate alla controcultura. E da allora
sono ciclicamente tornate di moda. Nel 1990, Kate Moss appare in un
celebre servizio di The Face mentre regge
una sigaretta fumata a metà: indossa un maglione lungo, il pezzo di sotto di un
bikini e un paio di sandali Birkenstock.
l look di Moss anticipa il più ampio
utilizzo che dei sandali si sarebbe fatto nei primi Novanta, quando le
Birkenstock si portavano con le camicie a quadri e i vestiti a fiorellini
della nonna».
Due anni dopo, infatti, Marc Jacobs le
faceva sfilare sulla passerella di Perry Ellis, in occasione della collezione grunge passata alla storia.
Salvo tali fashion peak, le Birkenstock
continuavano comunque a trovarsi regolarmente ai piedi di persone uncool,
almeno fino al momento spartiacque.
Il
momento di Phoebe Philo.
Parigi, marzo 2012. Durante la settimana
della moda, Philo – all’epoca direttrice creativa di Céline, venerata in ogni
dove per il suo approccio intellettual-chic che ha rivoluzionato il brand – riabilita
le Birkenstock. O, almeno, una loro rivisitazione in chiave surrealista. Le
modelle che sfilano per Céline indossano sandali che ricordano il modello Arizona, ma
foderati con pelliccia di visone.
L’effetto domino che si scatena è
imprevisto e di una portata al di là di ogni immaginazione. «È l’anno delle
Birkenstock!», titola entusiasta il Guardian. La bibbia
Vogue dedica loro l’articolo «Pretty Ugly: Why Vogue Girls Have Fallen for
the Birkenstock» (letteralmente: «Abbastanza brutti (ma pretty
vuole dire anche carino): perché le ragazze di Vogue si sono innamorate delle
Birkenstock»), dove una serie di editor e contributor dichiara senza vergogna
la propria fedeltà ai sandali tedeschi.
I Furkenstocks
– il nome con cui tutte le testate li ribattezzarono, da fur, pelliccia – di
Céline fungono da apripista per Miley Cyrus, che si fa fotografare con un paio
di sandali ingioiellati; per Giambattista Valli, che ne fa una versione
metallizzata con borchie; per Givenchy, che ne propone una variante di cuoio
nero con rose rosa stampate. E persino Manolo Blahnik, dall’alto dell’Olimpo
dello stile, si dichiara fan delle Birkenstock.
«Noi non ci occupiamo di calcolare quale
sarà il prossimo trend nella moda, anzi a essere onesti sarebbe meglio non
essere così di moda in questo momento»: intervistato da Mead, l’amministratore
delegato di Birkenstock Oliver Reichert ha ammesso che il fenomeno Furkenstocks
non era minimamente voluto. E che è stato difficile per l’azienda tenere il
passo della domanda di alcuni modelli, in quanto un aumento così improvviso e incontrollato
di richieste avrebbe potuto metterla sotto pressione.
La provocazione lanciata da Phoebe Philo è
anche precorritrice di uno style movement di dimensioni assai più ampie. Il Normcore
– come lo ribattezzò il New York Magazine – ha reso glamour scelte stilistiche
fino a prima discutibili e celebrato «la volontà di non distinguersi come un
nuovo modo di essere cool, senza cercare per forza di fare la differenza e
indossando abiti ardentemente ordinari».
Secondo Reichert, le Birkenstock si
inseriscono in questo cambio culturale non solo perché sdoganate da grandi
stilisti e testate blasonate: le persone hanno capito che molte delle scarpe
che indossano le forzano a una postura scorretta e dannosa per la salute, e
desiderano quindi tornare a rispettare il proprio corpo – piedi compresi.
Ultimo, ma non meno importante, i
consumatori stanno dimostrando un interesse crescente per la provenienza di ciò
che indossano e per l’impatto ambientale e sociale delle loro scelte nel
vestiario. Birkenstock produce ancora i propri sandali in Germania e mantiene
la promessa di riparare le calzature consumate indipendentemente dal loro
stato. «Oggi puoi comprare un paio di pantaloni per meno di dieci euro da
Primark, ma non durerà, perché persino i più giovani capiranno che in
Bangladesh c’è qualcuno che ha dovuto soffrire per i loro pantaloni da dieci
euro e questo non è per nulla un accordo equo», spiega Reichert a Rebecca Mead.
Oliver Reichert ha assunto la carica di
amministratore delegato (insieme a Markus Bensberg) nel 2013 con l’obiettivo di
ristrutturare l’azienda, risolvendo la frammentazione interna causata
dalla gestione dei discendenti di Karl Birkenstock, Christian, Stephan e Alex,
divenuti poi solo azionisti. Il passaggio ha portato all’unificazione del
marchio, sia internamente che esternamente, e ha contribuito a spingere
Birkenstock nel mercato mainstream, fuori dalla categoria di nicchia del
benessere. Secondo i dati di Quartz, nel 2012 l’azienda ha venduto 10 milioni
di scarpe, divenute 25 milioni nel 2017; i ricavi a livello global nello stesso
anno ammontano a 750 milioni di euro, tre volte tanto quelli del 2012.
La combinazione di solidità finanziaria e
libertà imprenditoriale – come sottolinea Forbes – ha permesso a Reichert di
disporre degli strumenti di cui aveva bisogno per compiere nuovi balzi nella
strategia di posizionamento: «Sì, siamo molto sani, ma anche noi siamo
ricchi. Quindi possiamo permettercelo e possiamo semplicemente farlo, il che
è un grande lusso». Tra il 2017 e il 2018 sono stati lanciati una collezione di
letti e una linea beauty: la prima comprende materassi in lattice naturale e
polvere di sughero, che assorbe naturalmente il sudore del corpo; la seconda
invece – venduta nei negozi per calzature – annovera creme per mani e piedi
fatte con il principio attivo dell’essenza che esce dalla corteccia del sughero.
Ma, forse, il traguardo principale viene
segnato nel 2017, quando Birkenstock sfila a Parigi con una collezione di
abbigliamento disegnata da un team interno e presentata nel Giardino delle
Tuileries. Contemporaneamente inaugura un nuovo modello itinerante di negozio,
la Birkenstock Box, realizzata in
collaborazione con lo studio d’architettura Gonzalez Haase AAS. Dopo aver debuttato
nel concept store berlinese di Andreas Murkudis, la Box ha girato il mondo,
passando da 10 Corso Como a Milano a Kirna Zabête negli Hamptons.
Ultima tappa del viaggio Los Angeles, lo
scorso marzo: su La Brea Avenue è stata presentata la collaborazione con Rick Owens, la cui
reinterpretazione del modello Arizona è arrivata a costare quasi 300 euro. La
scelta non lascia sorpresi, in quanto Owens stesso ama sovvertire le regole
estetiche a cui la moda ci ha abituati, provocando e proponendo capi e
accessori in grado di trascendere il concetto di “bello” in senso stretto.
Proprio quel “bello” che, per lungo tempo, non ha permesso alle Birkenstock di
essere socialmente accettabili.
La Birkenstock Box è stata il punto di
contatto più importante per il marchio, in quanto manifestazione fisica della
sua incursione nei mondi del design, dell’arte e dell’architettura. È così
che il brand ha dialogato con i propri consumatori: non mutando pelle o
tradendo la sua missione, bensì fornendo loro un promemoria potente e palpabile
in merito alla sua evoluzione. Birkenstock, tornando alla premessa iniziale,
non ha bisogno di Supreme. Fosse per Reichert, non avrebbe avuto manco bisogno
di Phoebe Philo. L’azienda non è alla ricerca di facili profitti a breve
termine, e il non essere guidati esclusivamente dal profitto è un lusso che
pochi possono permettersi. Vantare un brand centenario e gestito da una
famiglia, in questo caso, ha i suoi privilegi sotto forma di libertà: la
libertà di essere creativi, di fare la cosa giusta al momento giusto e di
possedere le risorse finanziarie per assumersi dei rischi.
Ciò che nessuno – nel quartier generale di
Neustadt/Wied – ha mai osato cambiare, sono i sandali ortopedici. Le
Birkenstock rimangono sempre uguali, soltanto più colorate, ma sempre orgogliosamente
brutte. «Non c’è nulla di meglio che un vestito carino accoppiato con un paio
di scarpe brutte», sottolineava una contributor nell’articolo-omaggio che Vogue
ha dedicato alle Birkenstock nel 2013. Se poi le scarpe sono pure comode,
allora forse sentirsi cool non è poi così male.
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