sabato 15 settembre 2018

Il ‘caso’ Birkenstock, ovvero come il brutto è diventato cool (e ha sbattuto la porta in faccia a Supreme)




da: https://it.businessinsider.com/ - di Marianna Tognini

Fino a una decina di anni fa, le Birkenstock erano i sandali – brutti – ai piedi dei backpackers che decidevano di intraprendere avventurosi viaggi nel Sud-est asiatico o in Sudamerica. O, peggio, dei turisti tedeschi in visita in Italia che li sfoggiavano senza alcuna remora, magari accoppiandoli al calzino bianco d’ordinanza.
L’alone vagamente punitivo e in un certo senso “monacale” posseduto dalle calzature teutoniche impediva loro di essere prese in considerazione come valida alternativa a qualsiasi altro tipo di sandalo, relegandole alla stregua di un acquisto “da vacanza” o da adoperare tra le mura domestiche. La verità è che le Birkenstock erano – e sono tuttora – comode sì, ma antiestetiche, per nulla slancianti e poco donanti. Averle non costituiva certo un vanto, figuriamoci esibirle.
È notizia recente che Birkenstock abbia rifiutato una collaborazione con Supreme «perché questa sarebbe solo una forma di prostituzione», stando alle parole del Ceo Oliver Reichert. Parafrasato per i non addetti ai lavori, un’azienda produttrice di sandali ortopedici (inutile girarci intorno, la loro anima non è cambiata) sbatte la porta in faccia al brand di streetwear più cool del momento.

Per capire cosa sia successo nell’arco di dieci anni, è tuttavia necessario fare un passo indietro di almeno duecento.

Un letto per il piede

Siamo a Langen-Bergheim, una piccola città vicina a Francoforte sul Meno, dove nel 1774 Johann Adam Birkenstock esercitava la professione di calzolaio. Non è però lui il protagonista
della nostra storia, narrata da Rebecca Mead sul New Yorker, bensì un suo discendente, Konrad. Titolare di due negozi di calzature a Francoforte, alla fine del diciannovesimo secolo ha un’intuizione che, per quanto semplice, risulterà rivoluzionaria. Sebbene all’epoca le suole delle scarpe fossero piatte, egli sovverte le regole, realizzando un plantare sagomato che avvolge e supporta il piede. E non si ferma certo lì. Con l’aumento dell’industrializzazione nel settore calzaturiero all’inizio del ventesimo secolo, sviluppa delle solette di gomma flessibile da inserire all’interno di qualsiasi scarpa commerciale, per creare un confortevole Fussbett, un ‘letto per il piede’.

Il Fussbett esiste ancora oggi ed è diventato il marchio di fabbrica di Birkenstock, i cui plantari sagomati conservano lo stesso nome. È grazie a tale prodotto che il brand si afferma nell’ambito dell’ortopedia, mentre l’attività passa da Konrad al figlio Carl. Il successo della calzature ortopediche non deve affatto stupire: la maggior parte dei tedeschi ama fare lunghe passeggiate all’aria aperta, un retaggio che arriva direttamente dalla cultura termale ottocentesca. Dopo i bagni nelle acque termali venivano infatti caldamente consigliate camminate nei boschi, e l’importanza di rafforzare il piede per mantenerlo in una posizione corretta divenne via via centrale all’interno della corrente salutistica teutonica.

A Karl succedette poi il figlio Carl Birkenstock, che negli anni Sessanta iniziò a produrre i sandali con il plantare di sughero per cui oggi il marchio è famoso. Diverse leggende aziendali raccontano che Karl intraprese esperimenti nel forno di casa, dove cucinò una mescola di sughero e lattice per ottenere un materiale leggero e resistente, ma che al tempo stesso sostenesse il piede. Il primo modello di sandalo fu il Madrid, provvisto di plantare sagomato in sughero e di una fascia con fibbia, la cui funzione era – va da sé – ortopedica e non estetica.

A chi l’indossava, la calzatura doveva dare la continua impressione di cadere, e il tentativo di fare aderenza con le dita dei piedi contro la punta sagomata era propedeutico a tonificare i muscoli del polpaccio.

Si deve però a una donna l’arrivo delle Birkenstock negli Stati Uniti, e insieme alla loro “nuova vita” non solo come scarpe ortopediche. Margot Fraser, nata nel 1929, era una nota sarta di Brema che nei primi anni Sessanta sposò un americano, trasferendosi a vivere nel nord della California. La signora soffriva di piedi doloranti, e durante un viaggio in Germania nel 1966 acquistò un paio di Madrid. Ne rimase talmente soddisfatta che, una volta tornata a casa, contattò Karl Birkenstock per proporgli di importarle al di là dell’oceano.

Purtroppo la risposta non fu positiva, e i commercianti di scarpe a cui Fraser si rivolse furono categorici: quei sandali non avrebbero mai venduto. Margot però era convinta delle loro potenzialità, e dietro suggerimento di un amico aprì uno stand alla fiera dei cibi salutari di San Francisco. I suoi primi clienti furono i titolari di negozi di alimentari, costretti a stare in piedi per l’intera giornata, e gli stessi misero in vendita le Birkenstock sui loro scaffali, schiacciate tra confezioni di muesli e di vitamine. Il successo non tardò ad arrivare, e – ironia della sorte – i commercianti di scarpe che avevano inizialmente disprezzato il suo prodotto presero a pregarla di rifornirli di sandali.

Da allora, nella storia del costume le Birkenstock saranno a lungo associate con la controcultura americana, partendo dagli hippy e dalle attiviste che si battevano per i diritti Lgbtq negli anni Settanta. Via i tacchi, al rogo gonne e reggiseni: i semi del casualwear sono stati gettati (anche) qui. Scrive Mead, sempre sul New Yorker: «Come la Earth Shoe arrivata dalla Scandinavia nei primi anni Settanta, anche le Birkenstock sono sempre state associate alla controcultura. E da allora sono ciclicamente tornate di moda. Nel 1990, Kate Moss appare in un celebre servizio di The Face mentre regge una sigaretta fumata a metà: indossa un maglione lungo, il pezzo di sotto di un bikini e un paio di sandali Birkenstock.


l look di Moss anticipa il più ampio utilizzo che dei sandali si sarebbe fatto nei primi Novanta, quando le Birkenstock si portavano con le camicie a quadri e i vestiti a  fiorellini della nonna».

Due anni dopo, infatti, Marc Jacobs le faceva sfilare sulla passerella di Perry Ellis, in occasione della collezione grunge passata alla storia.

Salvo tali fashion peak, le Birkenstock continuavano comunque a trovarsi regolarmente ai piedi di persone uncool, almeno fino al momento spartiacque. 

Il momento di Phoebe Philo.
Parigi, marzo 2012. Durante la settimana della moda, Philo – all’epoca direttrice creativa di Céline, venerata in ogni dove per il suo approccio intellettual-chic che ha rivoluzionato il brand – riabilita le Birkenstock. O, almeno, una loro rivisitazione in chiave surrealista. Le modelle che sfilano per Céline indossano sandali che ricordano il modello Arizona, ma foderati con pelliccia di visone.

L’effetto domino che si scatena è imprevisto e di una portata al di là di ogni immaginazione. «È l’anno delle Birkenstock!», titola entusiasta il Guardian. La bibbia Vogue dedica loro l’articolo «Pretty Ugly: Why Vogue Girls Have Fallen for the Birkenstock» (letteralmente: «Abbastanza brutti (ma pretty vuole dire anche carino): perché le ragazze di Vogue si sono innamorate delle Birkenstock»), dove una serie di editor e contributor dichiara senza vergogna la propria fedeltà ai sandali tedeschi.

I Furkenstocks – il nome con cui tutte le testate li ribattezzarono, da fur, pelliccia – di Céline fungono da apripista per Miley Cyrus, che si fa fotografare con un paio di sandali ingioiellati; per Giambattista Valli, che ne fa una versione metallizzata con borchie; per Givenchy, che ne propone una variante di cuoio nero con rose rosa stampate. E persino Manolo Blahnik, dall’alto dell’Olimpo dello stile, si dichiara fan delle Birkenstock.

«Noi non ci occupiamo di calcolare quale sarà il prossimo trend nella moda, anzi a essere onesti sarebbe meglio non essere così di moda in questo momento»: intervistato da Mead, l’amministratore delegato di Birkenstock Oliver Reichert ha ammesso che il fenomeno Furkenstocks non era minimamente voluto. E che è stato difficile per l’azienda tenere il passo della domanda di alcuni modelli, in quanto un aumento così improvviso e incontrollato di richieste avrebbe potuto metterla sotto pressione.

La provocazione lanciata da Phoebe Philo è anche precorritrice di uno style movement di dimensioni assai più ampie. Il Normcore – come lo ribattezzò il New York Magazine – ha reso glamour scelte stilistiche fino a prima discutibili e celebrato «la volontà di non distinguersi come un nuovo modo di essere cool, senza cercare per forza di fare la differenza e indossando abiti ardentemente ordinari».

Secondo Reichert, le Birkenstock si inseriscono in questo cambio culturale non solo perché sdoganate da grandi stilisti e testate blasonate: le persone hanno capito che molte delle scarpe che indossano le forzano a una postura scorretta e dannosa per la salute, e desiderano quindi tornare a rispettare il proprio corpo – piedi compresi.

Ultimo, ma non meno importante, i consumatori stanno dimostrando un interesse crescente per la provenienza di ciò che indossano e per l’impatto ambientale e sociale delle loro scelte nel vestiario. Birkenstock produce ancora i propri sandali in Germania e mantiene la promessa di riparare le calzature consumate indipendentemente dal loro stato. «Oggi puoi comprare un paio di pantaloni per meno di dieci euro da Primark, ma non durerà, perché persino i più giovani capiranno che in Bangladesh c’è qualcuno che ha dovuto soffrire per i loro pantaloni da dieci euro e questo non è per nulla un accordo equo», spiega Reichert a Rebecca Mead.

Oliver Reichert ha assunto la carica di amministratore delegato (insieme a Markus Bensberg) nel 2013 con l’obiettivo di ristrutturare l’azienda, risolvendo la frammentazione interna causata dalla gestione dei discendenti di Karl Birkenstock, Christian, Stephan e Alex, divenuti poi solo azionisti. Il passaggio ha portato all’unificazione del marchio, sia internamente che esternamente, e ha contribuito a spingere Birkenstock nel mercato mainstream, fuori dalla categoria di nicchia del benessere. Secondo i dati di Quartz, nel 2012 l’azienda ha venduto 10 milioni di scarpe, divenute 25 milioni nel 2017; i ricavi a livello global nello stesso anno ammontano a 750 milioni di euro, tre volte tanto quelli del 2012.

La combinazione di solidità finanziaria e libertà imprenditoriale – come sottolinea Forbes – ha permesso a Reichert di disporre degli strumenti di cui aveva bisogno per compiere nuovi balzi nella strategia di posizionamento: «Sì, siamo molto sani, ma anche noi siamo ricchi. Quindi possiamo permettercelo e possiamo semplicemente farlo, il che è un grande lusso». Tra il 2017 e il 2018 sono stati lanciati una collezione di letti e una linea beauty: la prima comprende materassi in lattice naturale e polvere di sughero, che assorbe naturalmente il sudore del corpo; la seconda invece – venduta nei negozi per calzature – annovera creme per mani e piedi fatte con il principio attivo dell’essenza che esce dalla corteccia del sughero.

Ma, forse, il traguardo principale viene segnato nel 2017, quando Birkenstock sfila a Parigi con una collezione di abbigliamento disegnata da un team interno e presentata nel Giardino delle Tuileries. Contemporaneamente inaugura un nuovo modello itinerante di negozio, la Birkenstock Box, realizzata in collaborazione con lo studio d’architettura Gonzalez Haase AAS. Dopo aver debuttato nel concept store berlinese di Andreas Murkudis, la Box ha girato il mondo, passando da 10 Corso Como a Milano a Kirna Zabête negli Hamptons.

Ultima tappa del viaggio Los Angeles, lo scorso marzo: su La Brea Avenue è stata presentata la collaborazione con Rick Owens, la cui reinterpretazione del modello Arizona è arrivata a costare quasi 300 euro. La scelta non lascia sorpresi, in quanto Owens stesso ama sovvertire le regole estetiche a cui la moda ci ha abituati, provocando e proponendo capi e accessori in grado di trascendere il concetto di “bello” in senso stretto. Proprio quel “bello” che, per lungo tempo, non ha permesso alle Birkenstock di essere socialmente accettabili.

La Birkenstock Box è stata il punto di contatto più importante per il marchio, in quanto manifestazione fisica della sua incursione nei mondi del design, dell’arte e dell’architettura. È così che il brand ha dialogato con i propri consumatori: non mutando pelle o tradendo la sua missione, bensì fornendo loro un promemoria potente e palpabile in merito alla sua evoluzione. Birkenstock, tornando alla premessa iniziale, non ha bisogno di Supreme. Fosse per Reichert, non avrebbe avuto manco bisogno di Phoebe Philo. L’azienda non è alla ricerca di facili profitti a breve termine, e il non essere guidati esclusivamente dal profitto è un lusso che pochi possono permettersi. Vantare un brand centenario e gestito da una famiglia, in questo caso, ha i suoi privilegi sotto forma di libertà: la libertà di essere creativi, di fare la cosa giusta al momento giusto e di possedere le risorse finanziarie per assumersi dei rischi.

Ciò che nessuno – nel quartier generale di Neustadt/Wied – ha mai osato cambiare, sono i sandali ortopedici. Le Birkenstock rimangono sempre uguali, soltanto più colorate, ma sempre orgogliosamente brutte. «Non c’è nulla di meglio che un vestito carino accoppiato con un paio di scarpe brutte», sottolineava una contributor nell’articolo-omaggio che Vogue ha dedicato alle Birkenstock nel 2013. Se poi le scarpe sono pure comode, allora forse sentirsi cool non è poi così male.

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