Ho appreso per puro caso, leggendo le
scritte scorrevoli sotto un programma, che dopo molti anni la Rai si appresta a
riproporre una nuova serie della Corrida e, sebbene sia stato un programma che
ho sempre odiato, anche prima che si ibridasse con la volgarità del televisivo
berlusconiano, sono rimasto piacevolmente colpito da questo ritorno che
potrebbe anche suonare come un piccolo, minimo segno di rinsavimento. Rivedere
finalmente allo sbaraglio dilettanti che orgogliosamente si dichiarano tali al
posto di presuntuosi e sedicenti talenti
creati in studio con tutta la tecnologia disponibile per fare scena è una
consolazione perché ammette il dilettantismo e non lo spaccia per capacità o
creatività come per gli spettacoli di questo tipo. In realtà la trasmissione
nata mezzo secolo fa in radio da un’idea che Corrado Mantoni aveva in qualche
modo rubato a Cesare Zavattini, ha portato alla ribalta molta più capacità ed
estro di non quanto non ne abbiano diffuso i talent standardizzati e omologati
al basso che servono solo a fungere da carne da cannone per uno squallido
universo marchettaro che va dalle discoteche alle cucine: dopotutto dalla
vecchia Corrida sono usciti fuori personaggi come Neri Marcorè, Gigi Sabani o
Emanuela Aureli.
Naturalmente non è di palinsesti che voglio
parlare, ma dei sintomi che essi esprimono e della pandemia neoliberista di cui
soffre il Paese. Scuole sempre peggiori
e sempre più orientate non alla cultura personale, ma all’addestramento a un
lavoro privo di diritti, l’aspirazione unica al denaro e
all’apparenza, il
culto della fisicità più idiota come ubi consistam, l’insaziabile consumismo di eventi e
personaggi da un minuto, assenza di prospettive, hanno creato non solo in
Italia, ma in tutto l’occidente una società di dilettanti da usare e buttare,
riconquistare con l’ultimo giocattolo, sedurre con i lustrini della
comunicazione di massa, con qualche momento di vita in cambio dell’atarassia
sociale. Solo pochissimi sono consapevoli che occorre molta fatica per
acquisire la capacità di dire qualcosa di nuovo, di intelligente e di originale
in qualsiasi campo e ancor meno sono quelli che sono disposti ad affrontare un
iter così difficile anche avendone le possibilità. Abbiamo generazioni della
domenica che fanno dell’approssimazione e del dilettantismo ontologico, del
resto teorizzato dai salmi della flessibilità e della precarietà, una religione
obbligata nel momento in cui si accorgono che le promesse nelle quali sono
stati allevati non erano che illusioni. E in cambio sempre più adolescenti
della upper class pretendono di fare l’operazione contro la miopia, perché si
sa portare gli occhiali potrebbe non sbalzarli nell’empireo dell’immagine.
Così si spera in qualcosa di numinoso che
dalla polvere porti agli altari e nel frattempo si nascondono le piaghe con
molte diverse strategie: quella di negare l’angoscia e il contesto che la
provoca dicendosi felici così, la miserabile astuzia di travestire sotto
altisonanti cartigli anglofili la modestia delle posizioni e delle responsabilità,
la rincorsa a miracolosi quanti inutili master forniti dal Cepu globale, che ha
trasformato alcune università in vere e proprie Lourdes della pseudo cultura,
il vagheggiare la famosa emigrazione all’estero che poi regolarmente si arena
nei pub o nei casi in cui si hanno le spalle ben coperte si trasforma con
ridicola tracotanza l’incompetenza in una risorsa. Si tratta di salvagenti per
la sopravvivenza interiore visto che da molti anni sono state rimosse
chirurgicamente le prospettive di cambiamento e lotta sociale, che la cultura
si è infantilizzata in modo spaventoso, il gusto si e ridotto a tendenza del
momento o ad eccentricità, che non vi sono più insomma gli strumenti per
affrontare e risolvere la disforia tra
l’identità che viene imposta alle classi popolari dall’esterno e la possibilità
per queste ultime di permettersela se non metaforicamente. Dunque occorre
continuare a sognare senza svegliarsi e sedarsi con i gadget che permettano di
sembra diversi da ciò che si è e cercare di di vivere al di sopra dei propri
mezzi, delle proprie competenze e anche dei propri talenti, se proprio vogliamo
agganciarci a quei “ceti aspirazionali” che bazzicano in varia forma nel mondo
della cultura, che consumano messaggi e ambiguità nell’illusione di essere
elite.
Per quello mi piace che qualcuno finalmente
dica e proclami di essere un dilettante e non un talento straordinario: é come
un bagno termale in una realtà che ancora dopotutto esiste.
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