Dalla
raccolta dei dati tramite il test sul social network alle scuse di Mark
Zuckerberg passando per le manovre dello stregone Steve Bannon e le rivelazioni
dell’analista Christopher Wylie: chi, cosa e perché del caso che sta scuotendo
Facebook
di Simone
Cosimi
Con le dichiarazioni di Mark Zuckerberg si chiude
la prima fase del caso Cambridge Analytica. Iniziata di certo non lo scorso 16
marzo ma almeno cinque anni fa. Tuttavia negli ultimi giorni una vicenda nella
sostanza abbastanza semplice - dati
raccolti da un'app di Facebook con metodi fino al 2014 consentiti e in seguito
illegalmente ceduti a una società che li ha usati per confezionare la sua
propaganda online - si è mescolata a numerosi elementi, livelli di lettura,
protagonisti e coprotagonisti, tanto da partorire un serpentone in cui è sempre
più complesso identificare nomi, ruoli, sviluppi e conseguenze. Proviamo a fare
ordine.
La premessa
Fra 2013 e 2015 lo psicologo e matematico russo-americano 32enne
Aleksandr Kogan, ricercatore a Cambridge e titolare della società Global
Science Research, con la scusa di effettuare una raccolta dati per una ricerca
accademica, sviluppa
e diffonde un'applicazione interna a Facebook chiamata
"thisisyourdigitallife". Una specie di quiz sulla personalità che appare
simile ai milioni che popolano il sito. Aveva ovviamente già fatto cose simili
in passato, per esempio in Russia. La "mette in moto" assoldando
collaboratori su una piattaforma di microlavoretti digitali gestita da Amazon,
Mechanical Turk, in modo che a cascata gli intrecci del nucleo di partenza
possano prima condurre all'iscrizione di circa 300mila persone e poi, a
scalare, alla raccolta di informazioni su 51 milioni di americani. Anche se per
alcuni la cifra sarebbe sovrastimata. In ogni caso, mentre all'epoca tutto
questo era legale, dal 2014 il margine di manovra concesso da Facebook agli
sviluppatori di terze parti è stato ristretto: adesso non si possono più
raccogliere informazioni degli utenti che interagiscono con gli iscritti a un
qualche servizio senza che anche i primi abbiano dato l'autorizzazione. In
precedenza, invece, un'app poteva raccogliere una grande quantità di dati anche
sulle attività degli "amici degli iscritti", per così dire.
Il fatto
Questa enorme mole di informazioni - la scoperta è di Facebook ma
risale almeno a tre anni fa - viene ceduta, non si sa in cambio di cosa,
qualcuno parla di 800mila dollari, alla società britannica Strategic
Communication Laboratories, in particolare al suo braccio armato per l'analisi
dei dati a scopi politici, Cambridge Analytica. Questo passaggio è vietato
dalle regole del social network, che in particolare proibiscono la vendita a
terze parti o per scopi pubblicitari di dati raccolti per ragioni, almeno
formalmente, accademiche. In realtà il lavoro di Kogan era già noto da tempo,
così come la sua pervasività. Inferiore a quella scatenata dalle campagne
elettorali di Barack Obama, il cui punto di partenza fu tuttavia
un'applicazione esplicitamente diffusa con fini di coinvolgimento politico.
Di chi è la
Cambridge Analytica
La società non è certo popolata da personaggi qualsiasi.
Finanziata coi soldi del 71enne miliardario statunitense Robert Mercer,
imprenditore, potente coamministratore del fondo Renaissance Technologies,
sostenitore della prima ora di Donald Trump, era guidata dal Ceo Alexander Nix
(ora sospeso). Ma per un periodo, quello della sua nascita, era stata di fatto
accudita e cullata dal 64enne Steve Bannon, giornalista e paladino
dell'alt-right Usa, fondatore del sito Breitbart News ed ex stratega di Donald
Trump nella corsa alla Casa Bianca.
Sarebbe stato Bannon a intuire le potenzialità di certe soluzioni
sviluppate per esempio da un altro ricercatore, Michal Kosinski (che avrebbe
interrotto rapidamente i rapporti con Kogan e con CA) per utilizzare i big data
in chiave elettorale e propagandistica sui social network. Ma, ovviamente, in
modo estremamente pervasivo, senza che quel flusso di notizie, contenuti,
influenze appaia manovrato dall'esterno. Più in generale, Cambridge Analytica sembrerebbe
il prototipo di un comitato elettorale digitale 4.0 in grado di sfoderare ogni
genere di mezzo, vecchio e nuovo, per cercare di influenzare il voto. Su tutti
i metodi, però, ci sarebbe la capacità di incrociare di big data e modelli di
valutazione della personalità basati su una quantità di "data point",
elementi personali ma anche più strettamente legati a gusti e tendenze, per
identificare milioni di "bersagli" pronti a essere colpiti. Facebook
era ed è una delle fonti di questa profilazione psicografica, una delle più
appetitose. Che questo bombardamento abbia avuto successo, influenzando davvero
gli esiti elettorali per esempio negli Stati Uniti (ma la società dice di aver
lavorato in oltre 200 tornate elettorali nel mondo) resta tutto da verificare.
In ogni caso, secondo il 28enne ex dipendente e analista
Christopher Wylie, fonte primaria delle inchieste di Observer, The New York
Times e Channel 4, è Bannon a coordinare direttamente le prime mosse di
Cambridge Analytica per l'acquisto di dati, compresi i profili di Facebook,
spendendo quasi un milione di dollari. Di altri 10 si era in qualche modo fatto
garante l'anno prima per finanziare il lancio di quella società di analisi.
"Dovevamo avere l'approvazione di Bannon per qualsiasi cosa, era il capo
di Nix, che non poteva spendere nulla senza l'approvazione" ha spiegato
Wylie al Washington Post.
Cosa viene
contestato a Facebook
Facebook è improvvisamente finita nella tempesta la scorsa
settimana, dopo le inchieste firmate da Observer, The New York Times e Channel
4, perché accusata di aver saputo da tempo dell'illecito travaso di dati ma,
punto primo, di non aver informato gli utenti coinvolti e, punto secondo, di
essersi fidata delle certificazioni fornite da Kogan e da Cambridge Analytica
rispetto all'avvenuta distruzione del pachidermico database in loro possesso.
Quelle informazioni non erano state affatto distrutte ma anzi, come ha spiegato
Wylie, sono state utilizzate fino in tempi recenti per profilare in profondità
gli utenti e sottoporre loro flussi di informazioni, notizie e contenuti utili
a sostenere la candidatura di Donald Trump.
Dunque Facebook è sotto accusa per non essere stata in grado di
garantire la tutela delle informazioni, per non averne impedito in modo
efficace il mercimonio e lo scambio, per non essersi assicurata dell'effettiva
eliminazione (cosa che vorrebbe fare ora, con una montagna d'inchieste in corso)
e per non aver messo al corrente gli utenti coinvolti. Prova ne sia la
sospensione degli account della società e di Kogan (ma, incredibilmente, anche
della fonte Wylie) solo lo scorso 16 marzo. Una ferita profondissima nel
rapporto di fiducia fra piattaforma e utenti: i dati sono la moneta prima del
funzionamento di queste piattaforme ma questo non significa che possano essere
raccolti ed estorti in modo pretestuoso (Kogan), rivenduti (Cambridge
Analytica) e lasciati circolare pur dopo la certezza della loro illecita
cessione (Facebook).
Inoltre, dai movimenti tellurici in atto a Menlo Park parrebbe che
i vertici della piattaforma non abbiano seguito gli avvisi del capo della
sicurezza Alex Stamos, destinato a cambiare incarico se non a lasciare il
gruppo nel giro di qualche mese, così come di non aver mai realizzato dei
controlli approfonditi sui margini di manovra concessi fino al 2014 agli
sviluppatori, come ha spiegato l'ex capo della privacy del social, Sandy
Parakilas, in azienda fra 2011 e 2012.
Le richieste
delle autorità internazionali
Fin qui la storia. Mentre le risposte di Zuckerberg sono arrivate
nella serata (italiana) di mercoledì 21 marzo e possono essere sintetizzate
proprio nel riconoscimento della rottura di quel patto di fiducia e
nell'individuazione di nuove soluzioni, la vicenda va accavallandosi a
inchieste internazionali. Su tutte quella in corso da mesi negli Stati Uniti
per mano del procuratore speciale Robert Muller, che indaga sulle presunte
interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016. Dall'estate del 2016
Cambridge Analytica ha infatti lavorato per la campagna di Trump dietro
sponsorizzazione dello stesso, onnipresente Steve Bannon. Dell'intreccio
farebbe parte anche Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza di Trump poi
dimessosi a causa della sua "ricattabilità da parte della Russia".
Allo stesso modo il Regno Unito vuole vederci chiaro, visto che Cambridge
Analytica avrebbe lavorato anche a favore dell'uscita del Paese dall'Unione
Europea in occasione del referendum del 2016. Così come, pare, per un paio di
formazioni politiche italiane. Per questo Zuckerberg è stato convocato dalla
commissione parlamentare britannica sulla Cultura,
i Media e il Digitale presieduta dal conservatore Damian Collins
così come dal Parlamento europeo. Intanto negli Stati Uniti è parttia la prima
class action contro Facebook e una serie di citazioni dai suoi azionisti.
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