mercoledì 30 dicembre 2020

I progetti con “anima” di Renzi, il ponte sullo Stretto: per caso c’entra il gruppo Webuild?!



da: Domani - di Giorgo Meletti

Perché Renzi è ossessionato dal ponte sullo stretto

Impegnato da settimane a giocare al gatto col topo con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte – tenendoci in fremente attesa di sapere a chi toccherà la fine del sorcio – Matteo Renzi non perde mai occasione per ricordarci la sua ossessione: il ponte sullo stretto di Messina.

Due giorni fa, durante la conferenza stampa tesa a demolire il Recovery plan «senz’anima» del governo, non ha mancato di sottolineare qual è il progetto che gli sta più a cuore: «Poi c’è il tema del ponte sullo stretto, che non può stare sul piano perché ha un arco di tempo maggiore, ma che ha uno spazio di azione decisamente più agevole e più facile».

Il suo messaggio è sempre quello, da anni: i cantieri del ponte sono pronti a partire, basta “sbloccarli”. È un’affermazione del tutto insensata, ma tant’è, l’importante è la narrazione. Dietro la quale ci sono gli interessi del gruppo Webuild, ex Salini-Impregilo, ex Impregilo, il maggior gruppo italiano delle costruzioni. Webuild è capofila del consorzio Eurolink che 15 anni fa vinse la gara per la costruzione del ponte ma non è mai riuscito a farsi approvare un progetto. Alla fine il governo Monti, nel 2012, disse basta e chiuse la partita. Impregilo allora ha fatto causa, facendosi forte di un codicillo secondo cui avrebbe avuto diritto a un indennizzo stellare se il ponte non si fosse fatto, quale che ne fosse il motivo. La decisione di Mario Monti è stata impugnata in tribunale, con la richiesta di un risarcimento di 657 milioni.

C’è un piccolo ostacolo sulla strada delle ambizioni di Webuild e del suo tifoso numero uno. Il progetto prodotto per il ponte non ha superato la Valutazione di impatto ambientale (Via), in occasione della quale i tecnici del ministero dell’Ambiente hanno trovato nel progetto stesso circa 220 errori. Sarà anche per questo che in primo grado Webuild ha perso sonoramente, poi ha fatto appello e siamo in attesa della seconda sentenza.

Webuild ci fa sapere che i suoi legali, nonostante la sconfitta in primo grado, continuano a dare «una valutazione positiva circa l’accoglimento delle azioni avviate e la recuperabilità» dei 657 milioni. Sono bei soldini che, soprattutto di questi tempi, una società quotata in Borsa ama poter promettere agli azionisti. Perciò Webuild, che ha come secondo azionista lo stato attraverso Cdp Equity, è in causa contro lo stato, e Renzi tifa per Webuild contro i contribuenti, come ha fatto fin dal giorno che andò da presidente del Consiglio alla festa per i 110 anni dell’azienda. Disse al capo Pietro Salini: «Noi siamo pronti. Se voi siete nelle condizioni di portare le carte e sistemare ciò che è fermo da dieci anni, noi sblocchiamo». Ma Salini, come scrive ogni sei mesi nelle relazioni finanziarie per gli azionisti, le carte le può portare solo in tribunale per chiedere i 657 milioni ai contribuenti.

Renzi tifa Webuild dal giorno in cui è diventato presidente del Consiglio. Prima no. Prima era d’accordo con Monti sullo stop: «Continuano a parlare dello stretto di Messina, ma io dico che gli 8 miliardi li

dessero (sic) alle scuole per la realizzazione di nuovi edifici». La stessa conversione, non appena varcato il portone di palazzo Chigi, lo statista di Rignano la ebbe sull’alta velocità: da inutile spreco di denaro a imperativo categorico e, sarà un caso, chi fa la parte del leone nell’affare Tav? Pietro Salini, ovviamente. Sul ponte i renziani hanno organizzato tre mesi fa a Reggio Calabria un convegno in occasione della campagna elettorale per l’elezione del sindaco. La senatrice di Italia viva Silvia Vono ha detto: «La politica non può più tentennare. Abbiamo un progetto già definito che ha avuto le autorizzazioni». Falso. Il senatore di Italia viva Davide Faraone ha detto: «C’è un progetto, si utilizzi quello. Occorrerebbe qualche settimana per renderlo operativo». Falso. Renzi, in collegamento telefonico, ha cantato il suo antico ritornello: «Costa più non farlo che farlo». Falso pure questo. Ma la polemica vera, nell’occasione, era contro la ministra delle Infrastrutture, Paola De Micheli, che si è iscritta al ballo in maschera dello stretto con l'ancora più onirica iniziativa della commissione internazionale chiamata a rifare una discussione di 50 anni fa: meglio il ponte o il tunnel sottomarino? Purtroppo è questo il livello della discussione progettuale con cui ci presentiamo a Bruxelles per chiedere i mitici 209 miliardi: fesserie in libertà per vedere come reagiscono i sondaggi. Poi daranno la colpa ai sadici eurocrati.

 

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