mercoledì 23 dicembre 2020

Crollo del Morandi, breve apologo sulla stampa educata

 


da: Il Fatto Quotidiano - di Silvia Truzzi

Ricordate quelli che, nei giorni successivi al crollo del ponte Morandi, alzavano la voce contro chi chiedeva (noi e pochi altri) la revoca della concessione ad Autostrade? I giornali “garantisti” che ci hanno impiegato settimane a scrivere la parola Benetton, in quelle ore erano impegnatissimi a scavare nelle macerie a caccia di particolari commoventi. Le singole vicende di vite spezzate fanno piangere, tutte insieme fanno incazzare: dunque meglio occuparsi delle lacrime. Intanto, mentre il presidente del Consiglio Conte (allora il governo era gialloverde) annunciava di voler revocare la concessione ad Autostrade, i paladini dello Stato di diritto sottolineavano a pagine unificate che “sarà l’inchiesta penale a chiarire le responsabilità”. Tutti a prendere in giro Danilo Toninelli, allora ministro dei Trasporti, il quale spiegava che l’inchiesta sui morti non c’entrava nulla, erano le inadempienze a giustificare la rottura del rapporto di concessione (concessione che purtroppo è ancora in essere, e questa sì è una colpa di chi governa). Senza scomodare giuristi di vaglia, non ci voleva molto a capire che in uno Stato di diritto i ponti non possono venire giù come d’autunno le foglie. Bene, un’inchiesta penale ora c’è ed è piuttosto corposa (anzi la principale, quella sul crollo, ha dato origine ad altri filoni). 

Lunedì sono state rese pubbliche le quasi cinquecento pagine della perizia chiesta dal giudice per le indagini preliminari. Vi si legge che i controlli e la manutenzione avrebbero impedito il crollo del ponte. E che dal 1993 non c’è stato nessun intervento sul pilone caduto. Il gip

aveva chiesto ai periti se vi ci fossero fattori “indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del ponte” che potessero avere contribuito a causare il crollo. Risposta lapidaria: no.

Adesso diranno che bisognerà aspettare la sentenza. Ed è certamente vero, almeno per quanto attiene alle responsabilità penali. Ma se la questione morale non rientra nelle vicende processuali, ci sia consentito dire che invece dovrebbe far parte di un dibattito pubblico un po’ meno all’acqua di rose. 

Il rapporto tra processo penale e informazione in Italia è curiosamente disinvolto quando si tratta di omicidi familiari, garantista quando si tratta di una strage (o quando sono chiamate in causa famiglie importanti). È una comunicazione molto educata quella che riguarda un’inchiesta che al centro ha 43 morti, quasi più attenta a non urtare la sensibilità degli indagati che quella dei familiari delle vittime. 

Sul Foglio del 5 dicembre, per esempio, abbiamo potuto leggere un lungo e dolente sfogo di Giovanni Castellucci – ex ad di Autostrade e poi di Atlantia, indagato in diverse inchieste – per le motivazioni della revoca dei domiciliari. I giudici hanno scritto di “un quadro di totale mancanza di scrupoli per la vita e l’integrità degli utenti delle autostrade”. Ma gli avvocati di Castellucci, che si sono dotati financo di un solerte ufficio stampa, rimarcano “che le valutazioni indiziarie espresse dal tribunale del riesame sono il frutto delle sole produzioni e articolazioni accusatorie”. E lui dice che si sente già condannato, che il clima purtroppo non è sereno. Eh no che non è sereno. Indagando sul crollo sono emerse presunte truffe ai danni dello Stato, riparazioni fatte col vinavil, mancati collaudi e una politica volta esclusivamente a massimizzare i profitti “a scapito della sicurezza degli utenti”. Nessuno vuole negare a Castellucci e agli altri il diritto alla difesa. Ma sia chiaro che il loro è un diritto uguale a quello di ogni indagato, non è più esteso perché più esteso è il loro conto in banca e più vaste sono le loro conoscenze. 

In un Paese normale, Castellucci si occuperebbe della sua difesa in un silenzio rispettoso della ferita che il crollo del Morandi ha inferto a 43 famiglie e a una comunità di cittadini costretta a non potersi fidare dello Stato.

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