E adesso sarà davvero dura, per Matteo
Renzi, continuare a raccontare la favola del voto locale che non ha niente da
dire sul livello nazionale. Sarà davvero complicato, per un premier che come
secondo lavoro fa il segretario del suo Partito Democratico, dire che il primo
turno delle elezioni amministrative di ieri non lo riguarda né come capo del
governo né come capo del suo partito. Perché prima delle singole situazioni
cittadine di cui sotto parleremo, su cui gli elementi nazionali pesano in
misura variabile ma altrettanto inconfutabile, ci sono elementi di contesto nazionale
che valgono per tutte, e che non si possono negare. Un contesto il cui
perimetro è disegnato a immagine e somiglianza dall’uomo politico più
accentratore e protagonista che la politica democratica italiana ricordi, fatta
eccezione naturalmente per Silvio Berlusconi. E quando un politico decide, in
parole e opere, di giocare un’ordalia permanente su di sé, sul proprio carisma,
sulle proprie scelte, perfino sulla propria antropologia, quando si vota per il
sindaco delle principali città italiane, e alle urne devono andare circa un
terzo degli italiani, diventa difficile sottrarsi all’interpretazione che vuole
una tornata elettorale così importante come uno dei tanti passaggi di un lungo
referendum su Matteo Renzi.
Da un lato, la politica dei continui proclami
di ottimismo e dei risultati
conseguiti, delle tantissime cose fatte e sempre
elencate al limite tra vanteria e pedanteria, della crisi in via di soluzione,
delle sfavillanti misure di rilancio, dei dati ballerini sulla congiuntura che
vengono sempre piegati alla bisogna, evidentemente non basta. Non basta a
calcificare il consenso in un paese affaticato anzitutto da se stesso e dal suo
modello di sviluppo, da una piramide demografica svantaggiosa, da un sistema
industriale che non tiene più. Non a caso citiamo nodi strutturali di una
storia lunga, e che per di più rientrano ormai nel contesto europeo che ancora
più grande è nelle dimensioni e nelle complessità, e ancora più pazienza,
sapere, sguardo di lungo periodo richiede per essere affrontato. La sproporzione
tra le sfide da affrontare e la strategia messa in campo – tutta comunicazione
di breve respiro, sempre con i sondaggi in mano – pare chiara. I dati di
dettaglio li capiremo andando avanti, ma già adesso possiamo affermare senza
troppe fatiche che nel bacino di riferimento di queste elezioni l’area politica
che fa capo al premier prende una scoppola di quelle memorabili, e i voti
perduti (prendete a riferimento il termine che preferite: le scorse
amministrative, le scorse europee del trionfo, le scorse politiche
dell’arrancare bersaniano) si contano nell’ordine delle centinaia di migliaia.
Sono decine di migliaia sulla sola Milano, mentre a Roma si andrà a contare un
dimezzamento secco rispetto agli ultimi tentativi elettorali. A Napoli il centrosinistra
perde meno: è in effetti più difficile perdere dove per la seconda volta
consecutiva non si arriva neppure al ballottaggio. Diciamo che perde anche lì,
diverse decine di migliaia di voti, ma pesano meno che tanto il Pd non
governava da un pezzo. La perdita di consenso in termini relativi e in termini
assoluti è evidente, schiacciante, innegabile perfino per la solerzia della
propaganda renziana. Impone di guardare in faccia a una realtà: nel paese il
consenso all’azione di governo è in forte calo. I risultati percepiti, la fine
della crisi e il rilancio dell’economia, evidentemente, non sono allineati con
quelli proclamati. La visione di società che viene spinta e propagata non
riesce a prendere il mitologico ceto medio, scopre il fianco a sinistra senza
più sfondare al centro (che forse non c’è più), e basta che gli altri (chiunque
essi siano) esprimano un candidato presentabile e che declini il congiuntivo, e
il Pd di Renzi rischia di perdere più o meno ovunque. Ancora, e per chiudere:
evidentemente i risultati propagandati non sono abbastanza percepiti da un
paese che può forse accettare di tirare ancora la cinghia, ma non di sentirsi
raccontare che va tutto benissimo.
Questi sono i problemi del premier che fa i
conti con la sconfitta. Poi, non minori, ci sono quelli del segretario,
del capo di partito, dell’uomo che per definizione supervede alle scelte
strategiche, all’indirizzo politico, alla crescita di una classe dirigente
organica a un progetto di azione politica e di potere. E anche qui, signora
mia, son dolori. A Roma comanda con un manipolo di fedelissimi toscani
immortalati con sagacia da quel vecchio arnese di Ugo Sposetti: “Ma non è
incredibile che tutti i migliori cervelli di una generazione siano nati negli
ottanta chilometri che dividono Firenze da Arezzo?”. Hai voglia a dire che è la
bava alla bocca di un rottamato: diventa difficile negare che la battuta colga,
amaramente, una verità. Perché un partito e un paese si possono anche scalare,
a certe condizioni, in pochi anni, soprattutto quando un ciclo politico e
generazionale mostra la corda, e ha avuto troppe occasioni e le ha sprecate per
chiederne ancora una. Ma poi, per restare fruttuosamente in cima dentro a
questa strana bestia che si chiama democrazia, servono saperi solidi, relazioni
strutturate con i mondi rappresentati (quali? quando? dove?), il giusto mix di
esperienza e coraggio, una visione precisa e paziente. Da queste parti,
insomma, per dirla tutta, possiamo anche non scandalizzarci per un’alleanza
tattica con Verdini in assenza di alternative: ma bisogna sapere dove si vuol
portare la nave e, nel frattempo, avere chiaro che per il futuro serve una
classe dirigente propria degna di questo nome. E che mentre si governa bisogna
lavorare per formarla, non per reclutare obbedienti replicanti scelti con un
gesto delle dita per essere piazzati dove serve, e dove un sistema elettorale e
costituzionale cuciti su misura (propria, se va bene, di Di Maio, e il cielo
non voglia, se va male) consentono di farlo.
Di questo percorso faticoso e lungo,
diciamocelo pure, non abbiamo visto nemmeno l’ombra, e i risultati di ieri sono
il primo grido, assordante, di un allarme che somiglia ad un avviso di sfratto.
Non già esecutivo, anche perché l’inquilino non vorrà farsi sfrattare, ma da prendere
sul serio se non vuole che la sua parabola politica, partita carica di promesse
di una vera nuova stagione, non finisca archiviata in pochi anni come una
parentesi visionaria e un po’ sballata, una specie di trip da cui ci si sveglia
con il mal di testa e la casa – ancora una volta – da rimettere in sesto.
I risultati delle città, del resto,
raccontano proprio questo. Un paese che dove può, al di là di ogni
concreta valutazione sulle capacità di chi si candida ad alternativa e senza
davvero pesare i meriti delle forze in campo, vota contro il Partito
Democratico. Quantomeno, all’alternativa, anche improvvisata, anche fragile,
concede la chance di potersela giocare. Non è affatto poco.
Partiamo da Roma, che nonostante tutto i
simboli hanno la loro importanza, e la capitale resta pur sempre la
capitale. La decapitazione di quell’imbranato di Ignazio Marino, avvenuta a
mezzo di dimissioni imposte con la forza dal Pd romano alla maggioranza dei
consiglieri che lo sostenevano, è stata annunciata da Renzi, in televisione,
diversi mesi prima di avvenire. “Fossi in Marino non starei sereno”, disse,
subito dopo aver mezzo perduto le elezioni regionali dello scorso anno. Mesi di
logorio, di retroscena pilotati per far arrivare messaggi, in una House of Cards (permetteteci l’autocitazione) gestita
forse con un po’ troppa leggerezza, e senza aver fatto bene i conti col
futuro. Che è vero che serviva dare la colpa a qualcuno del consenso in calo,
figurarsi, ma uno straccio di piano b bisogna averlo. Direte: ma lui il piano b
ce l’aveva, era mandare al macello i Cinque Stelle, a governare Roma senza
dargli neanche il becco di un quattrino, e poi esporli al pubblico ludibrio che
meritano gli incapaci, e ricominciare da zero.
Lasciando perdere le obiezioni di
correttezza che si imporrebbero anche in quel mestieredi sangue e merda che è
la politica, andrebbe notata ancora una volta la spericolatezza di un disegno
ad altissimo tasso di rischio, e senza vere garanzie di classe dirigente. Già,
perché il povero Roberto Giachetti ha condotto in solitaria una campagna al
limite dell’eroico, contando che è un politico serio e di alta scuola, e si è
trovato a tenere insieme i cocci di un partito flagellato da Mafia Capitale,
sputtanato dall’obbedienza supina a chi chiese di far di dimettere Marino, non
rigenerato in nessun modo dalla leadership renziana, del tutto impreparato alla
sfida improbabile. Si dice, infatti, che quello di Giachetti è un risultato
miracoloso. Chi non crede ai miracoli sa che i miracoli succedono sempre nella
testa di chi se ne sente beneficiato. I numeri dicono che a Roma il pd, quando
Giachetti avrà chiuso attorno ai 300 mila voti, potrà contare in 200 mila –
duecento mila, duecento mila – i voti che ha perso, sia prendendo a riferimento
le elezioni comunali del 2013, che le trionfali europee dell’anno dop0. Più che
la moltiplicazione dei pani e dei pesci, siamo di fronte a un dimezzamento: che
come miracolo lascia con la testa perplessa e, soprattutto, la pancia vuota. Il
miracolo romano riesce al contrario, invece, quasi perché manca poco che al
ballottaggio vada quel volto nuovo (battuta) di Giorgia Meloni, e per di più senza
l’appoggio di zio Silvio, che si intestardisce su Marchini al punto da sembrare
motivato a fare un favore a Renzi e, soprattutto, uno sfavore – ben raccontato qui da Gianluca Roselli – a quei
due giovinastri oggettivamente inadeguati a raccoglierne l’eredita che sono
Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Il
miracolo l’ha fatto Berlusconi. Ma proprio un miracolo ci vorrà, invece, tra
due settimane, per evitare che il primo sindaco donna di Roma si chiami
Virginia Raggi e sia eletta sotto una corona fatta di Cinque Stelle. La
scommessa del pd e di Renzi è nota: i populisti a Cinque Stelle sono
improvvisati, e noi abbiamo il coltello dalla parte del manico, e la borsa
dalla parte del cordone. Agli improvvisati statisti a Cinque Stelle la patata
rovente di Roma, un debito mostruoso, una città ingovernabile, un casino
ciclopico e ingestibile, insomma, brucerà le dita in men che non si dica. La
scommessa può avere il suo senso politico, difficile prevedere in che
condizioni si troverà poi la città e il suo corpo elettorale. Difficile
escludere a priori nuove rabbie. Ma c’è anche il caso, remoto, remotissimo, per
carità, nell’ordine dell’1/2 per cento di possibilità, che i ragazzi a Cinque
Stelle la sfanghino. Se la cavicchino. Si inventino qualcosa. E se sopravvivono
a Roma, come potranno non essere eleggibili anche per gli altri palazzi romani?
Del resto, il caso di un populista che esce
palla al piede dai cinque anni di governo, si appresta a rivincere largo
al ballottaggio e dopo aver governato una grande città c’è. Non è nei libri di
storia, è sui giornali di oggi, e si chiama Luigi De
Magistris. Napoli meriterbbe un ampio racconto a parte, e speriamo di
offrirvelo sulle nostre pagine. Ma certo, è l’emblema di una storia che cinque
anni fa nessuno immaginava di raccontare. È la storia di una città in cui
succedono cose brutte, come ne sono sempre successe tante, ma anche cose belle.
In cui nuove iniziative imprenditoriali e un nuovo vento di partecipazione sono
percepiti e raccontati da tanti che non avevano – e ancora non hanno –
particolare simpatia per il sindaco ex pm. In cui, soprattutto, mentre i vecchi
partiti riciclano per l’ennesima volta lo stesso candidato (il centrodestra di
Lettieri) o promuovono Valeria Valete fedele allieva di Bassolino a sua
antagonista e simbolo del ricambio generazionale, la politica che incrocia
movimento e governo ha trovato una sua fisionomia. Quella di De Magistris. E
una città da sempre schernita, nei palazzi come allo stadio, nei salotti di
Milano e in quelli di Roma, ha ritrovato un suo orgoglio che è insieme quello
di metropoli meridionale e anche di laboratorio politico. Sia chiaro: la Napoli
di De Magistris non è diventata New York, ma il confronto col passato,
evidentemente, ai napoletani è sembrato democraticamente sensato a vantaggio
del presente del futuro di De Magistris. Il suo esperimento, la sua sicura
conferma al ballottaggio, non è solo un mandato a governare per altri anni la
città ma anche quello, innegabile, a diventare figura di riferimento di un’area
politica, a sinistra di Renzi, decisamente in cerca di autore.
Da una roccaforte della sinistra
istituzionale che ormai è solidamente in altre mani, come Napoli, passiamo
a due casi diversi e analoghi di città che a sinistra sono sempre state, i
sindaci uscenti del Pd escono in vantaggio dal primo turno, ma la partita non è
chiusa e, soprattutto, il margine non è ampio come ci si aspettava. A Bologna
il sidnaco uscente Virginio Merola, che sembrava l’unico che realisticamente
poteva sperare in una vittoria al primo turno, si ferma dalle parti del 40%.
Più o meno quanto fanno la somma dei voti della candidata leghista Lucia Bergonzoni,
che andrà al ballottaggio, e Massimo Bugani dei Cinque Stelle. Immaginare una
sconfitta al ballottaggio per Merola è difficile, gli ottimisti del
centrosinistra dicono “comunque impossibile”. I numeri son questi e dicono di
un clima generale al di là e oltre qualunque valutazione locale. La Lega Nord
al 22% a Bologna, in particolare, è un dato da mandare a memoria.
A Torino il discorso è diverso, per chi si
occupa di politica anche più affascinante. All’interno della vecchia guardia
post-comunista, che in quella storia hanno rappresentato figure di vertice, tra
gli uomini che hanno ruolo e potere istituzionale, uno solo ha fatto
professione di fede politica apertamente convintamente renziana, ed è Piero
Fassino, sindaco uscente di Torino. Ha costruito nei mesi scorsi un’alleanza
più larga che si può, spingendo soprattutto al centro, diciamo così. Imbarcando
“moderati” di ogni risma, scoprendosi a sinistra, puntando forte sull’ipotesi
di chiudere la partita al primo turno o, almeno, di arrivarci molto vicino. Non
è successo. Chiude al 41% dei voti circa e distanzia di 10 punti percentuali
Chiara Appendino, la candidata dei Cinque Stelle di cui, da mesi, chi conosce
la politica torinese diceva un gran bene. I voti di distanza sono tanti? Ancora
una volta, dipende dai punti di vista. Intanto, il Movimento Cinque Stelle, a
Torino, rischia di prendere più voti del Pd, e quindi di essere il primo
partito. E poi, tra quelli che al ballottaggio non ci vanno, il fronte
composito degli avversari del pd e di Renzi è sicuramente più ampio. Leghisti,
forzisti e anche la sinistra estrema di Giorgio Airaudo, che difficilmente può
scendere a patti con Fassino. Anzi.
Una sinistra estrema che, a parte i casi in
cui vince in prima persona, con quella bestia strana di De Magistris, a questo
giro conta poco e niente in tutte le principali città. Ci sarà tutto un
affannarsi a dare la colpa a quelli più a sinistra del Pd, ma stavolta, a
guardare i numeri, mostrano un po’ dappertutto il loro velleitarismo, la
propria irrilevanza, e la loro incapacità di organizzare davvero un’area di
dissenso di e da sinistra. È così dappertutto, anche nel caso monstre di
Milano. La città che a Renzi aveva dato la benedizione più ampia, con il 45%
dei consensi alle europee del 2014 al solo Pd, contando oltre 257 mila voti al
partito del premier. La città che usciva da cinque anni di buon governo di
centrosinistra e che, dopo la rinuncia di Pisapia a ricandidarsi e le
travagliate primarie che avevano visto la vittoria fragile di Sala, vedeva candidato
l’uomo simbolo dell’Expo, del grande evento ottimista e positivo, del cambio
d’umore di un paese. Oggi, alla fine dello spoglio, si trova a contare una
vittoria che è un pareggio, come perfettamente preconizzato da Paolo Natale con ampio
anticipo, ed è un florilegio di
incognite future. Un ballottaggio che sarà una partita aperta, tesissima, con
un pugno di voti che restano fuori dagli schemi (i Radicali, ad esempio),
qualche minuscola lista civica, una sinistra/sinistra guidata da Basilio Rizzo
che probabilmente sentirà il richiamo del vecchio nemico, e un voto dei Cinque
Stelle tutto da capire. Certo è che alla fine il vantaggio di Sala è di poche
migliaia di voti e se vittoria sarà, sarà di quelle sudate, risicate,
faticosissime. Il Pd, rispetto alle europee, vede dimezzati – non per dire, è
proprio questione di numeri – i suoi voti. Sala paga sicuramente lo scotto di
diversi errori, di una fronda a sinistra che più che convergere su Rizzo è
stata a casa ma, ancora una volta, il dato che emerge va proiettato fuori
Milano: proprio perché Milano si sentiva e veniva spiegata come capitale di
questa nuova onda. Qui l’avversario del centrosinistra non è il Movimento
Cinque Stelle, non è un leghista solitario, ma è il centrodestra classico di
matrice milanese, anche se guidato da un distinto signore romano come Stefano
Parisi. L’ultimo lampo di lucidità di Berlusconi è stato inventarsi questo
candidato gentile, che parla bene, che ha un lessico politico di chi si è
formato a sinistra, che sa stare a tavola come piace ai milanesi. Salvini è lì
dietro, ma dalla foto è pian piano scomparso. Lo schema è quello antico e
pratico, tra le grandi città, solo quassù: tutto il centrodestra, insieme,
guidato da un buon borghese.
Il risultato di Milano dice, al di là di
tutto, che questo schema ha ancora – o ha di nuovo, più precisamente – una
sua logica, una sua forza, anche se Berlusconi non c’è più, e certo non è più
quello di dieci anni fa. Che questo schema ritrova una sua forza e una sua
competitività a determinate condizioni. Quando il processo politico che porta a
una candidatura fredda e tecnica, come quella di Sala, perde punti in termini
di partecipazione e entusiasmo nel centrosinistra, generando il più grave caso
di astensionismo, come a Milano? Sicuramente. Quando l’astensionismo mescola le
carte in tavola e scompagina gli schemi dati per acquisiti? Senz’altro. Quando
un’eredità simbolicamente pesante, come quella di Pisapia, non trova il modo di
essere canalizzata in modo sensato per colpa di tanti, a cominciare da Pisapia?
Sicuramente. E tuttavia il dato resta impressionante: il centrodestra unito, a
Milano e solo qui ritrova competitività, e si candida a ripartire dal governo
della sua capitale. Vada come vada, Parisi la sua sfida l’ha già vinta, e
domani o dopo il suo nome non potrà non stare tra quelli che possono scrivere
la storia del polo moderato/conservatore in Italia. Anche perché, dove imbrocca
il candidato, come a Milano, Forza Italia prende circa il doppio dei voti di
Salvini e della sua Lega. Per uno schema di vecchio centrodestra che tiene,
Milano, ce n’è una, certo più piccola e meno pensate, in cui tiene il vecchio
centrosinistra, quello che nel 2011 portò Pisapia al governo, ed è Cagliari.
Nel capoluogo sardo, Massimo Zedda, alla guida di una coalizione ampia e inclusiva,
vince al primo turno, e forse anche questo dato andrà preso sul serio.
Le città interessate da questo voto sono
molte altre, e tutte confermano e rafforzano la tendenza di un voto che
mette seriamente sotto scacco il partito democratico di Renzi. Alla fine di una
campagna elettorale in cui Grillo si è nascosto fino alla clamorosa assenza al
comizio finale di Virginia Raggi (scommessa vinta), in cui Berlusconi ha vinto
nell’unica partita che ha giocato davvero (Milano), il leader del Pd deve fare
la non particolarmente congeniale pratica dell’autocritica. Ne va della sua
carriera futura, e a questo argomento crediamo sia sensibile. Ha puntato su uno
schema di bassa affluenza e alto consenso (lo stesso che lo aveva premiato alle
Europee) che già sembra non funzionare più. Ha trascurato la formazione di una
classe dirigente locale radicata, preferendo dare a tutti coloro che lo
criticavano dei gufi e dei rosiconi, e ha sbagliato, visto che più o meno
dappertutto – fosse anche solo per questione di poltrona – quelli della
minoranza si sono sbattuti come e più degli altri. Ha infine cercato di dire
che questo non è un test che lo riguarda davvero, e lo ripeterà, ma è una bugia
puerile, che come tale tutti identifichiamo. Perché questo voto dirà di lui
tantissimo. Non lo spingerà a dimettersi se non lo vuole fare, certamente, ma
costituirà la base per misurare la sua capacità di leggere le situazioni
politiche e anche la base sulla quale si avvia verso il referendum sulla
Costituzione, improvvidamente trasformato nel referendum ufficiale sulla sua
persona.
Sarà difficile arrivarci intero se, tra
quindici giorni, non si tiene Bologna, Torino e, soprattutto, Milano. In
caso contrario potrà raccontare la versione che vuole. Ma nel segreto del suo
cuore lo saprà, nitidamente, che non potrà proprio stare sereno.
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