da: Sole 24 Ore
Il 24 giugno è San Giovanni, patrono di
Torino. Quindi per la città è giorno di festa, e succede che si passi una
serata con amici e conoscenti, a chiacchierare del più e del meno e a guardare
i fuochi d’artificio.
Quest’anno però era diverso, a tenere banco
erano solo due argomenti: la caduta di Fassino per mano di una neo-sindaca
grillina (Chiara Appendino), e il capitombolo dell’Europa sotto i colpi del
Brexit. E i discorsi?
Un po’ di tutto, ma quello che più mi ha
colpito, un po’ girando per i siti un po’ parlando con le persone che conosco
(quasi tutte favorevoli a Fassino e al «Remain»), è il tratto che li
accomunava: l’animosità contro il suffragio universale. Il discorso più
moderato che ho sentito suggeriva che i referendum dovrebbero essere indetti
solo su materie semplici e comprensibili (tipo: sei pro o contro i matrimoni
gay?) e che il referendum sul Brexit proprio non si doveva fare.
I più estremisti suggerivano drastiche
limitazioni del suffragio: per votare si dovrebbe almeno avere la licenza media
(ma c’è anche chi dice: la laurea);
oppure: per votare si devono avere meno di
70 anni. In breve: a vecchi e ignoranti bisognerebbe togliere il diritto di
voto.
Trovo tutto ciò estremamente interessante.
Non per il contenuto di simili pensieri, ma per i soggetti da cui provengono.
Gli stessi che parlano con sufficienza, talora con disprezzo, del popolo che
vota Cinque Stelle o sceglie Brexit, sono prontissimi a lodarne la saggezza, la
maturità democratica, la lungimiranza, quando il popolo vota nel modo giusto.
Gli stessi che invocano ad ogni occasione la necessità di passare dalla fredda
Europa dei tecnocrati, autoritaria e burocratica, alla calda Europa dei popoli,
luminosa e democratica, immancabilmente si spaventano non appena, con un
referendum, ai popoli vien concesso di dire la loro su qualcosa di importante.
Insomma, qui c’è qualcosa che non torna, innanzitutto sul piano logico. E
questo qualcosa, ho l’impressione, ha a che fare proprio con il concetto di
popolo.
La condizione del popolo, oggi in Europa, è
strana e deplorevole. Non tanto perché il popolo è il popolo, e quindi per
definizione è il “basso” del sistema sociale, ma perché il suo rapporto con la
politica è innaturale e disturbato. In molti paesi europei, verosimilmente in
tutti quelli di matrice occidentale, accade un fenomeno inedito: i partiti
progressisti affermano di voler rappresentare le istanze del popolo, ma il
popolo non li vota, preferendo ad essi i movimenti e partiti cosiddetti populisti,
siano essi di destra, di sinistra o incollocabili (come il Movimento Cinque
Stelle). E viceversa i ceti medi impiegatizi, gli insegnanti, gli
intellettuali, gli artisti, i professionisti, persino molti imprenditori e
manager preferiscono votare i partiti progressisti, o quel che resta dei
partiti conservatori tradizionali. Insomma un vero quadrilatero amoroso
disturbato: la sinistra dice di amare il popolo, ma il popolo non ama più la
sinistra. I ceti alti e medi prediligono la sinistra, che però dice (o finge?)
di rappresentare i ceti bassi.
La questione interessante a me pare questa:
sbagliano i benestanti a guardare a sinistra? E sbaglia il popolo a guardare
altrove?
La mia risposta è che, tutto sommato, i
benestanti fanno benissimo a prediligere questa sinistra, che è molto attenta
alle loro esigenze e molto distratta su quelle di chi sta in basso, quelli che
io amo definire “i veri deboli”: incapienti, artigiani, lavoratori autonomi,
lavoratori in nero, disoccupati, esclusi dal mercato del lavoro, abitanti delle
periferie. Sarei meno sicuro che sia anche vero il reciproco, ossia che
facciano bene i ceti bassi a fidarsi dei partiti populisti.
Per certi versi, mi pare che facciano male.
I due fronti che si osteggiano in Europa, a me paiono afflitti entrambi da
mancanza di visione, e da una formidabile inadeguatezza delle rispettive classi
dirigenti. Se il Brexit ha vinto è innanzitutto perché gli uomini (e le donne!)
che contano in Europa, non sono stati all’altezza del sogno di Altiero Spinelli.
Ma una volta messi da parte Juncker, Hollande, Merkel, Renzi, Cameron, possiamo
pensare che a farci sognare siano Marine Le Pen, Farage, Grillo o Salvini? Di
per sé, l’idea di un’Europa delle Nazioni, senza la Gran Bretagna ma estesa
“dall’Atlantico agli Urali” non è affatto insensata o peregrina, e risale
addirittura alla fine degli anni ’50, quando de Gaulle ebbe a formularla per la
prima volta. Il guaio è che alla guida della destra in Europa non c’è un de
Gaulle, ma solo (per ora) una modesta squadra di agitatori politici, che una
volta al potere potrebbero anche farci rimpiangere la sbiadita classe dirigente
europea di oggi: insomma l’establishment europeo deve accontentarsi della
signora Merkel («l’unico uomo di Stato europeo», copyright Massimo Fini) ma
dall’altra parte non è ancora nato un nuovo de Gaulle che sappia prenderne il
posto.
Se però guardiamo le cose da un altro punto
di vista, quello dell’economia e della politica sociale, non sono così sicuro
che la fiducia del popolo nei partiti populisti, e soprattutto la sua sfiducia
nei partiti progressisti che vorrebbero rappresentarlo, non siano tutto sommato
ben riposte. Non sono così sicuro, in altre parole, che sia fondata l’accusa
che, sotto sotto, benpensanti e governanti illuminati rivolgono al popolo,
ossia di essere cieco e abbindolabile, fino al punto di votare contro i propri
interessi. È vero, le campagne populiste hanno puntato il grosso delle loro
carte sulla paura per gli immigrati, visti come temibili concorrenti in materia
di posti di lavoro e accesso al welfare, ma anche come fonte di disordine e di
insicurezza per la loro specializzazione in alcune materie criminali, come il
furto, il traffico di droga, lo sfruttamento della prostituzione.
A tutto ciò l’Europa civile e illuminata ha
saputo opporre soltanto l’imperativo morale dell’accoglienza, il valore
superiore dell’inclusione sociale, e talora anche il disprezzo per chi ha
paura, accusato di basarsi su mere percezioni, distorte dalla propaganda e
dalla credulità, anziché sulla cruda realtà delle cifre statistiche (vedi le
ricorrenti polemiche su criminalità reale e percepita). Non hanno pensato, i
dispregiatori del popolo e delle sue paure, che la maggior parte di coloro che
di paura non ne hanno (o ne hanno poca, o sanno dominarla con la ragione)
vivono in zone protette, o comunque non degradate, delle nostre affluenti
società moderne. Soprattutto, non hanno pensato, i rieducatori del popolo rozzo
e credulone, di consultarle davvero, le statistiche sulla criminalità e
l’immigrazione in Europa (si veda il grafico in pagina). È un lavoro difficile,
perché i dati sono lacunosi e le fonti vanno integrate e raccordate, ma non è
impossibile farlo. E se lo si fa, il quadro che emerge non dà così torto al
popolo ingenuo ed ignorante. Secondo la ricostruzione della Fondazione David
Hume, su 28 paesi europei per cui si hanno dati, il tasso di criminalità
relativo degli stranieri è sempre (tranne in Irlanda e in Lettonia) superiore
rispetto a quello dei nativi. In media gli stranieri delinquono 4 volte di più,
con punte di 12 in Grecia, 7 in Polonia, 6 in Italia, 5 nelle civilissime
Svezia, Austria, Olanda.
Che dire?
Forse il popolo non fa bene a fidarsi delle
forze populiste, che talora alimentano i peggiori sentimenti dell’animo umano.
Ma forse il popolo, più che fidarsi dei populisti, non sa a chi altri
affidarsi, e votandoli fa una scommessa tanto scettica quanto disperata. Più
che credere negli agitatori anti-sistema, il popolo pare diffidare dell’élite
illuminata che lo rispetta quando “fa la cosa giusta”, e ne prende commiato
quando fa quella sbagliata.
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