La data del 16 marzo – raccontava la grande stampa – doveva esser quella del nuovo default della Russia. A quasi cento anni dall’ultimo default sul debito in valuta estera (quello del 1998 riguardava solo emissioni in rubli) la Russia avrebbe di nuovo subito l’onta di essere uno Stato fallito. Come spesso accade però, passata la foga, ci si accorge che le cose hanno sfumature differenti. La guerra, anche quella finanziaria combattuta a colpi di sanzioni, ha un piano raccontato e uno reale.
Mercoledì due bond della Federazione Russa avevano in pagamento cedole per 117 milioni di dollari. Per giorni si è speculato sul fatto che il pagamento non potesse aver luogo o potesse avvenire in valuta nazionale dopo la decisione di Putin di trasformare in rubli i pagamenti ai Paesi cosiddetti “ostili”. In entrambi i casi, trascorso il periodo di grazia di 30 giorni, sarebbe scattato il default. Nei giorni scorsi il ministro delle Finanze russo Siluanov aveva ventilato la possibilità che il pagamento avvenisse in rubli o potesse esser bloccato dalle sanzioni americane. Ieri una nota ufficiale ha precisato che era stato inviato l’ordine di pagamento in dollari alla Citibank di Londra. Nel pomeriggio Jp Morgan ha confermato di aver ricevuto il pagamento e di averlo girato a Citibank.
Il default è quindi evitato. Pur mancando conferme ufficiali, è chiaro che il giro di soldi legato ai bond russi deve essere avvenuto con l’assenso dell’Amministrazione Usa. Questo però
Ognuna di queste 23 licenze autorizza a eseguire operazioni in deroga ai divieti. Così le banche russe possono scambiarsi dollari negli Stati Uniti se le operazioni si riferiscono a pagamenti per il petrolio, alcune materie prime o medicinali. Possono disporre pagamenti di cedole e il rimborso di titoli o il regolamento di operazioni in derivati finanziari. In sostanza, a fronte di un divieto generale, esistono molte scappatoie che servono a evitare che gli effetti delle sanzioni siano più gravi per il sanzionatore che per il sanzionato. Così facendo, però, se ne diminuisce la forza.
Nel caso dell’esclusione dei pagamenti per il petrolio il riferimento, nemmeno troppo implicito, è alla particolare dipendenza dell’economia europea rispetto alle forniture russe. Nel caso del debito pubblico russo, probabilmente, si è voluto mettere al riparo tutta l’impalcatura finanziaria costruita sul debito di Mosca. Un’impalcatura che non si regge solo sui 20 miliardi di debito pubblico in valuta estera, collocato all’estero che è poca cosa, ma conta gli intrecci finanziari azionari e obbligazionari con il sistema “privato” russo, le sue banche e le sue società. Questo intreccio vale 380 miliardi di dollari, per la gran parte denominato in dollari e euro, sul quale poi sono costruiti contratti derivati a copertura del rischio di cambio o del rischio di default dell’emittente. Esiste un serio timore che il crollo dello Stato russo porti con sé il crollo del suo sistema privato e con esso pesanti perdite per il sistema finanziario globale che su di esso ha costruito strumenti derivati a copertura.
E così, nonostante le parole forti di questi giorni (Joe Biden ha definito Putin un “criminale di guerra”), la sostanza dei provvedimenti ci restituisce una situazione molto più sfumata. Si vuol far male all’economia russa, ma senza che questo generi traumi per le nostre economie. Gli eventi di questi giorni, dal rialzo dei prezzi energetici a quello dei beni alimentari, e ora al mancato default del debito russo, ci dimostrano che questo non è possibile.
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