da: https://www.tpi.it/ - di Giuliana Sias
Il processo di ridicolizzazione di Orietta Berti celebrato da Fedez con la complicità di Achille Lauro, andrebbe inserito tra le peggiori mascalzonate viste negli ultimi anni. Chiaramente l’usignolo di Cavriago è solo l’ennesima esca, l’ennesimo trucco di prestigio per fascinare le folle del web. L’ennesima vittima da sacrificare sull’altare dell’impero inumano messo in piedi dal rapper che fa beneficienza ai povery in Lamborghini per finanziare il suo canale su Twitch (la piattaforma di livestreaming di proprietà di Amazon, la multinazionale della quale non si parla dal palco del 1 maggio perché – sai com’è, l’autocensura – Jeff Bezos ha pur sempre strappato un assegno da 800 mila euro per il suo principale testimonial italiano).
L’operazione di lancio di «Mille», il singolo che promette di sfondare qualsiasi classifica questa estate, rappresenta la peggiore faccia di quel capitalismo rapace sul quale avremmo dovuto riflettere in questo anno di paralisi, per superarlo. E invece scopriamo che mettendo a leva l’assuefazione pandemica alla noia, il grande capitale prosegue la sua opera predatoria utilizzando forme ancora più aggressive di prima. Si chiama capitalismo estrattivo (di piattaforma): utilizza internet e in particolare i social network come fossero un grande centro commerciale e invece di estrarre materie prime o minerali, estrae dati personali, intenzioni e comportamenti d’acquisto. Cioè valore umano.
L’entusiasmo generale che ha accolto la trasformazione di Orietta Berti in un fenomeno social e quindi in una macchina sforna like, rappresenta un grande abbaglio collettivo. E un profondo involgarimento della nostra concezione del mondo e soprattutto della sua dimensione culturale. Bisognerebbe tornare ai fondamentali, a cosa dovrebbe essere la musica, a cosa dovrebbe suscitare l’uscita di un disco, o di un brano come in questo caso, a quale dovrebbe essere il principale movente alla base di una collaborazione artistica.
Perché in giro si vede solo gente che ride a crepapelle, il solito campionato di memerismo, il solito comico inconsapevole eletto a furor di popolo eroe nazionale. Peraltro ci si prende gioco, questa volta, di una donna che ha quasi ottant’anni conciata in maniera ridicola su consiglio interessatissimo di due che si sono messi in testa di tirar su due soldi facili con un tormentone estivo. Di battere cassa sfruttando l’improvvisa ribalta della cantante che con la sua partecipazione solitaria tra gli over 55 all’ultima edizione di Sanremo è diventata per tutti, bonariamente, la nonna rimbambita che chiama Naziskin i Maneskin.
La nonna alla quale comunque si vuole un gran bene perché ha il coraggio di portare all’Ariston, nel 2021, una canzone del 1961. E quindi se stessa, senza manierismi, espedienti, scappatoie o tranelli. Cioè il contrario di quanto avvenuto con l’operazione di lancio di «Mille» che la catapulta in un contesto fuori luogo e fuori tempo massimo. In una società matura e intellettualmente esigente, con quel minimo di collante sociale che permette di tenere insieme l’identità dei singoli avendo rispetto della storia di ognuno, questa roba dovrebbe suscitare disgusto.
Convincere una persona anziana, con una carriera di tutto rispetto alle spalle, che diventare la regina dei meme per un mese possa portarle un qualsiasi beneficio artistico, o personale, assomiglia dannatamente ad una qualsiasi puntata di Pomeriggio 5. In cui l’umanità non si riferisce più a una specie ma ad un caso.
Federico Lucia è un tipo che da anni sforna solo canzoni per l’estate. E’ il Luis Fonsi di Buccinasco ma in un Paese con problemi di miopia come il nostro è celebrato come fosse Franco Battiato. L’ultimo suo disco risale al 2019, il testo più impegnato che sia riuscito a produrre nell’ultimo anno, quello per antonomasia dell’introspezione, recita nell’unica barra di valore vagamente “sociale”: «Maresciallo suvvia, quella roba? Non mia. Permette la domanda, è mai stato alla Diaz?». La macelleria messicana di Genova nel mezzo del nulla (mischiato col niente).
E a proposito del niente (mischiato col nulla) occorre citare il giornale online The Vision, che in questi giorni ha pubblicato un articolo celebrativo e un’audio intervista accompagnata da un testo di presentazione delirante che ridisegnano i confini dell’agiografia, quelli che pensavamo insuperabili dopo aver letto la lode a Mattia Santori sulla bacheca delle 6.000 Sardine. Titolo: «Quando attacchi il sistema, il sistema risponde e lo fa anche con dossieraggi che non dicono nulla». Il pezzo è firmato Federica Passarella e critica duramente l’inchiesta dell’Espresso che racconta come i Ferragnez accettino di essere censurati solo dietro lauto compenso. Altrimenti il fonico di famiglia ti registra illegalmente e poi sbatte il mostro in prima pagina. Che in internet è duplicabile all’inifinito.
«Non è scandaloso rispettare un contratto lavorativo che vieta di dire alcune cose», «non siamo di fronte a persone compromesse soltanto perché parlano da una posizione privilegiata», spiega Passarella. Ma le vette più alte del lucìanesimo le tocca il direttore presentando la nuova puntata del podcast dedicata proprio a Fedez, definito «voce di una generazione» e «nemico numero uno del sistema»: «[…] giornali e tv mainstream si affannano nel tentativo di beneficiare indirettamente del seguito degli influencer attivisti».
Insomma, uno dei pochi casi in cui troviamo in contemporanea una denuncia e un’ammissione di colpevolezza. Ma a questa grande imbriacatura a base di Federico e Lucia, assieme alla rivista online diretta da Giuseppe Francaviglia, partecipa anche Valigia Blu, il blog collettivo fondato da Arianna Ciccone, che per Fedez scomoda addirittura l’odio di classe. Titolo: «Fedez e l’inconscio classista del nostro paese». Non si trattasse di Valigia Blu avremmo di che ridere per i prossimi vent’anni. Invece da questa lettura ci svegliamo in hangover, con postumi pesantissimi, un gran mal di testa e una nausea devastante.
Perché se in Italia perfino la stampa indipendente affida ad un multimilionario con interessi particolari il ruolo di avanguardia progressista, vuol dire che abbiamo smesso di scavare. L’articolo firmato da Claudia Boscolo ci spiega innanzitutto che Fedez non ha bisogno del palco del 1 maggio per fare autopromozione. E cioè, in sostanza, ci spiega che quando sei ricco puoi smettere di lavorare, perché ormai sei ricco e vivi d’aria. Infatti se poi ti invitano in Rai accetti perché non ti occorre, e se ti invitano a pranzo mangi perché hai già mangiato, e se ti invitano in vacanza parti perché sei appena tornato.
«A Fedez – prosegue la collega in uno dei passaggi più esilaranti – si imputa persino di poter parlare perché ricco, come se i poveri dovessero per forza tacere». Non è che debbano, è che per poter parlare – e per poter parlare intendo avere la possibilità di incidere pesantemente sul discorso pubblico non pronunciare un sermone solenne a tavola, all’ora di cena con Mentana in sottofondo, innanzi ai propri cari – purtroppo occorrono strumenti, capacità e risorse, anche economiche.
Sulla falsariga di The Vision, anche in questo pezzo c’è poi un riferimento al “sistema” («perché il sistema simbolico prevede che per essere di sinistra è necessario sembrare poveri e apparire sobri») e al talento innato per l’autopromozione come generatore automatico di invidie: «Risulta in buona sostanza inaccettabile che un ragazzo di periferia senza cultura né legami politici abbia raggiunto quello che un tempo era il cuore della cultura sindacale di questo paese […]. E soprattutto è proibito esibire simboli di arricchimento come il Rolex e la Lamborghini […]. Non si tollera che un qualsiasi proletario della periferia milanese si sia arricchito usando media e linguaggi tuttora incompresi persino dai vertici dei media generalisti».
Prima di tutto, pare manchino proprio le basi. Perché uno che ha accesso diretto ai mass media quotidianamente e milioni di follower infoiati al seguito, non ha bisogno di essere difeso da nessuno. A parte che da se stesso, almeno nel caso di Fedez. Ma invece, in estasi draghistica spinta, Fedez – proprio come Mario – non sbaglia nemmeno quando sbaglia, perché anche quando dimostra palesemente di non essere all’altezza il verdetto finale nei suoi confronti è rovesciato: ad esempio diventa un’attitudine eccezionale essere inadeguati, sudare, avere gli occhi lucidi, tremare come una foglia su un palco – essendo tu uno che di mestiere sta sui palchi e non, per dire, alla guida di un tram.
In tutti i casi, anche per Sanremo, è un tripudio di “grazie Fedez!” (Ma grazie per cosa? Per averci insegnato che la terapia Emdr è un palliativo non solo inefficace ma controproducente per affrontare uno stato d’ansia?). Per finire, tornando all’antimodello di Fedez, non servono particolari lenti di ingrandimento per notare come chiunque si avvicini a Federico Lucia diventi un prodotto della sua fabbrica.
Lillo (che fortuna sua si è smarcato alla velocità della luce), Maionchi (che fortuna sua ha la capacità di sfancularlo a ripetizione), Berti, Sal, J-Ax, Rovazzi. Tutti sono arance da spremere finché c’è da spremere qualcosa. Dal capitalismo estrattivo si è passati insomma al capitalismo in spremuta. A questo proposito, ho rivisto da poco un capolavoro assoluto, che nel 1998 ci era parso un film di fantascienza distopico. Ecco, con Fedez quel film è diventato una serie per il web spacciata per un’utopia.
Il
marito di Chiara Ferragni trasforma tutti in Truman Burbank. Ma proprio come
nel film, appena chi è entrato nella sua orbita capisce che è tutto finto,
calcolato, strumentale alla sua crescita imprenditoriale e a quella di nessun
altro, scappa. “Buongiorno Fedez, e casomai non ti rivedessi: buon pomeriggio,
buonasera e buonanotte!”. A differenza di quanto accade nel film, però, il
pubblico italiano, almeno per ora, non esplode di gioia quando la vittima della
messinscena si libera ma continua ad applaudire il regista dello show.
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