da: https://www.avvenire.it/ - di Eraldo Affinati
Era un ragazzo italiano di seconda generazione, Willy Monteiro Duarte, come si dice dei figli nati in Italia da genitori immigrati, in questo caso di origine capoverdiana: indistinguibili dai nostri, se non per il colore della pelle. Ebano quella sua.
Aveva ventuno anni. Cresciuto con la famiglia nei vicoli stretti di Paliano, pittoresco borgo sopraelevato nel Frusinate, era benvoluto da tutti. Un po’ ciociaro, un po’ no. Lo guardavi e ti stava subito simpatico: l’Italia del Ventunesimo secolo, comunque sia, io almeno lo spero, avrà le sue fattezze, la sua generosità, il suo coraggio, la sua allegria, e sarà migliore di tante altre che nel passato abbiamo avuto, più di quanto noi oggi possiamo immaginare. Padre e madre impiegati in un’azienda agricola, due sorelline più piccole.
Persone a posto. Perfettamente integrate. Un giovane carico d’energia vitale col futuro negli occhi, come dimostrano le foto pubblicate ieri sulle prime pagine di molti giornali. In quel sorriso irresistibile e positivamente contagioso saremmo tentati di riconoscere l’azzurro intenso delle isole atlantiche che gli scorreva nel sangue con atavica pulsione, ma in realtà la frenesia e l’entusiasmo della sua irrefrenabile adolescenza l’abbiamo forgiata anche noi. Diplomato all’Istituto alberghiero di Fiuggi, lavorava in un ristorante di Artena. Voleva diventare un cuoco. Tifoso romanista, giocava a pallone, sognava di poter indossare la maglia giallorossa allo stadio Olimpico, frequentava l’Azione Cattolica, aveva partecipato a un
corteo di rievocazione storica nella piazza del paese e ne andava giustamente fiero. Era molto legato ai suoi amici: si capisce anche da certe inquadrature pubblicate su Facebook, tutti insieme col pollice alzato come per dire: noi siamo qua. E voi?
Non so chi glielo avesse insegnato, ma Willy sapeva, lo ha dimostrato coi fatti, pagandolo troppo caro, che se scopri un’ingiustizia accadere accanto a te, non puoi passare indifferente, chiamandoti fuori come se niente fosse. Ti senti spinto a intervenire. A costo di rischiare la pelle. Così sabato notte in via Oberdan, nel quartiere della movida a Colleferro, a sud di Roma, quando ha visto un suo ex compagno di classe invischiato in un tafferuglio, non ha esitato un istante a andare a soccorrerlo.
Col risultato che l’avversario ha chiamato al cellulare altri giovani poco più grandi, i quali sono arrivati in pochi minuti a bordo di una macchina di grossa cilindrata e hanno dato inizio a un pestaggio micidiale. Sono scappati tutti, tranne Willy che è rimasto da solo a fronteggiare l’orda selvaggia. Smilzo, scricchiolino, senza difesa, non abituato a fare a botte, una preda quasi inerme.
Basta guardare i volti degli aggressori, ora agli arresti, per intuire tutto: appassionati di arti marziali miste, coi muscoli costruiti mediante lunghe sedute in palestra, i corpi tatuati, gli sguardi truci, la testa vuota. Begli eroi: si sono accaniti cinque contro uno, vigliaccamente, sferrando calci mirati al cranio, uno dei quali è risultato fatale. Il branco dei predatori, capace di trasformare una bella provincia italiana di fine estate nella pianura del Serengeti, dove il più forte sbrana il più debole, si è dato alla fuga. I magistrati adesso indagheranno sulla presunta aggravante razziale. Gli assassini andranno alla sbarra: alcuni fra coloro che gli sono stati vicini negli scorsi anni forse si faranno qualche domanda.
Del resto, dovremmo porcela anche noi:
educatori, insegnanti, genitori. Come è stato possibile allevare questi animali
umani? Quali scuole hanno frequentato? Dove sono cresciuti? Finché ci saranno
tipi come loro, avremo sempre perso tutti, è ovvio. Significa che qualcosa nel
nostro sistema sociale, diciamo così, non funziona. Insomma assisteremo di
certo al solito rendiconto. Ma chi ci ridarà il sorriso spensierato di Willy?
In questi giorni stiamo tentando di riaprire le scuole italiane. Sarebbe un bel
segno se lo facessimo, a prescindere da quelle che potranno essere le
risultanze processuali, anche a nome suo.
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