da: https://www.internazionale.it/
Trump
prosegue la guerra culturale che aveva promesso
di Alessio
Marchionna
Nell’ultima settimana è andato in scena uno
schema che si ripete periodicamente da quando Donald Trump è entrato alla Casa
Bianca, quasi un anno fa. Il presidente prende una serie di decisioni estreme
destinate ad avere conseguenze importanti sia negli Stati Uniti sia nel resto
del mondo; la maggior parte dei commentatori e dei politici resta spiazzata e
si affanna per trovate l’ipotetico filo comune che lega scelte apparentemente
irrazionali (e in alcuni casi in contrasto tra loro); gli sforzi di tracciare
un profilo politico che serva da guida per il prossimo futuro falliscono, e
l’opinione pubblica mondiale si ritrova con una serie di domande apparentemente
senza risposta.
Perché Trump ha deciso di riconoscere
Gerusalemme come capitale di Israele in un momento in cui le tensioni regionali
sono ai massimi storici? Perché decide di ufficializzare il suo appoggio al
candidato repubblicano al senato Roy Moore, accusato di aver molestato alcune
minorenni tra gli anni settanta e ottanta, mentre in tutto il mondo sembra
esserci un risveglio contro la violenza di genere?
Perché fa di tutto per far approvare una
riforma fiscale che aiuta le grandi aziende e le fasce più ricche della
popolazione a scapito di milioni di famiglie della classe media? Perché decide
di alzare lo scontro con i democratici sullo shutdown, il blocco delle
attività del governo che si verifica in caso di mancata approvazione di una
legge finanziaria, in un momento in cui la tensione tra i due partiti al
congresso era diminuita?
Trump
è salito al potere soffiando sul tribalismo
Come hanno fatto notare in molti,
naturalmente la risposta ha a che fare anche con l’esigenza
di spostare l’attenzione dall’inchiesta del procuratore speciale
Robert Mueller sul cosiddetto Russiagate, il presunto tentativo del
governo di Mosca di condizionare il voto del novembre 2016 probabilmente in
accordo con il comitato elettorale di Trump.
Ma questa spiegazione non è sufficiente, e
forse per trovarne una più efficace bisogna lasciare da parte l’idea
tradizionale su ciò che motiva le decisioni politiche (le alleanze
internazionali, le dottrine economiche, le trattative parlamentari) e andare
alle radici del “trumpismo”, che più che un modello politico è un’attitudine
verso il potere, fondata su una serie di imperativi, il più importante dei
quali prevede che ogni decisione debba portare a una vittoria che sia
clamorosa, schiacciante e immediata.
È chiaro che in assenza di una visione
politica quest’attitudine si traduce in scelte che rompono con il passato e
servono a creare il caos quando in tutto l’occidente l’opinione pubblica chiede
di superare lo status quo.
La
promessa
Apparentemente Trump continua a misurare
tutte le sue decisioni, sia in politica estera sia al livello nazionale, in
base a due criteri: quanto si discosta dalle scelte dei suoi predecessori,
soprattutto da quelle di Barack Obama, un presidente che Trump ha sempre
considerato illegittimo, e quanto servono a tenere viva l’indignazione della
base politica che lo ha portato alla Casa Bianca. In altre parole, il
presidente sta facendo di tutto per far scoppiare la guerra culturale che –
tolti gli elementi folcloristici – era la promessa centrale della sua campagna
elettorale.
Nel caso di Gerusalemme molti hanno fatto
notare che con la sua decisione Trump non ha solo allontanato una soluzione
pacifica nel conflitto tra Israele e Palestina ma ha anche a contribuito a
infastidire tutto il mondo arabo, un fatto che potrebbe dare all’Iran un’arma
per aumentare la sua influenza nella regione e alla lunga a ridurre il peso
degli Stati Uniti.
Trump è certamente consapevole di poter
scatenare un nuovo conflitto in Medio Oriente, ma da presidente poco interessato
agli equilibri internazionali, e al ruolo del suo paese nel mondo, considera
molto più importanti i risvolti di questa decisione sul fronte interno. Trump è
salito al potere soffiando sul tribalismo, appellandosi ai valori ebraici e
cristiani e rifiutando l’idea dei valori universali dell’occidente, e questo si
è quasi sempre tradotto in una retorica estremista contro quello che lui
considera il mondo musulmano, un calderone in cui finisce di tutto, dagli
abitanti della Striscia di Gaza all’uomo che uccide 49 persone in un locale gay
di Orlando fino agli attentati del gruppo Stato islamico in Europa.
Da questo punto di vista accontentare il
più possibile il premier israeliano Benjamin Netanyahu è il modo più facile per
riaffermare quei valori e creare scompiglio.
Un
facile calcolo politico
Su Roy Moore e sulle violenze di genere la
guerra culturale di Trump è ancora più evidente. Molti si chiedono cosa spinga
il presidente a difendere Moore e ad attaccare le donne che lo hanno accusato
di molestie, con il rischio che l’opinione pubblica statunitense ricominci a
parlare delle accuse venute fuori durante la campagna elettorale del 2016,
quando tredici donne accusarono lo stesso Trump di molestie.
Ma anche in questo caso c’è un calcolo
politico facile: Trump è andato al potere sconfiggendo la prima donna candidata
alle presidenziali e con metà del paese indignata per un video in cui si
vantava delle sue molestie sessuali; è convinto di non poter perdere consensi
su questo tema, mentre considera molto più importante conservare il seggio
repubblicano al senato (si vota per sostituire Jeff Sessions, che ha lasciato
il suo seggio per fare il ministro della giustizia).
Se il 12 dicembre Moore sconfiggerà Doug
Jones, il candidato democratico, Trump potrà sbandierare una vittoria politica
e una culturale, quella contro il movimento emergente contro la violenza di
genere. Per ora le cose sembrano andare secondo i suoi piani: i repubblicani,
che avevano tolto il loro sostegno a Moore quando erano venute fuori le prime accuse,
si sono ricompattati dietro al candidato, e un sondaggio del Washington
Post mostra che in Alabama sei donne su dieci voteranno per Moore.
Contro
i giovani e le minoranze
Per Trump anche la riforma fiscale, un
provvedimento che sembra uscito dal manuale della destra tradizionale, rientra
nel piano di scatenare una guerra culturale, in questo caso contro i giovani e
le minoranze, i gruppi che si sono opposti di più alla sua ascesa politica.
Come spiega Ronald
Brownstein sull’Atlantic, “la riforma fiscale concede enormi benefici alle
famiglie statunitensi più ricche, un gruppo di persone prevalentemente bianche
e anziane. Il conto lo pagheranno le generazioni più giovani attraverso
l’aumento del debito pubblico, il taglio della spesa sociale e le tasse più
alte. In questo senso la riforma aggraverà la disuguaglianza tra le
generazioni”.
Queste misure si allineano perfettamente
con l’obiettivo politico del trumpismo, cioè mettere un’argine ai cambiamenti
demografici, che sono destinati a trasformare la politica e la società
statunitensi. Continua Brownstein:
La popolarità dei repubblicani tra i
bianchi più anziani, in particolare quelli non laureati e lontani dalle grandi
aree urbane, è stata cruciale nell’ascesa di Trump e nell’approvazione della
riforma fiscale. Le basi demografiche di questo dominio politico, tuttavia, si
stanno erodendo. Dal 1978 i baby boomer sono la generazione di
elettori più numerosa e votano compatti per i repubblicani. Ma, secondo il
Center for american progress, nel 2018 per la prima volta gli elettori nati tra
il 1980 e il 2000, i cosiddetti millennial, supereranno i baby boomer.
I postmillennial, gli statunitensi nati dopo il 2000, aumenteranno il
vantaggio. Questo slittamento generazionale innescherà un profondo cambiamento
razziale: mentre l’80 per cento dei baby boomer è bianco, più di due
quinti dei millennial e quasi la metà dei postmillennial non
lo sono.
L’offensiva politica di Trump è stata
completata dalla scelta di ridurre notevolmente l’estensione di due importanti
parchi nazionali dello Utah, il Bears Ears national monument e il Grand
Staircase-Escalante national monument.
Il primo, istituito da Barack Obama nel
2016, perderà l’85 per cento del suo territorio, mentre il secondo sarà
dimezzato. In totale ottomila chilometri quadrati non saranno più protetti dal
governo federale e gli amministratori locali potranno consentire lo sfruttamento
di aree ricche di risorse minerarie. Questo provvedimento colpisce uno dei
bersagli preferiti della guerra culturale di Trump, cioè la lotta ai
cambiamenti climatici e il declino dell’industria manifatturiera. In precedenza
Trump aveva annunciato che gli Stati Uniti usciranno dall’accordo di Parigi
sulla riduzione del riscaldamento climatico e aveva abolito una serie di misure
volute da Obama per ridurre l’inquinamento.
Messi insieme, questi provvedimenti sono
l’essenza del programma politico di Trump, e spiegano anche perché il
presidente se ne stia ancora stranamente tranquillo sul fronte della vicenda
russa.
In questi undici mesi ha continuato a
compattare la base politica che l’ha portato alla Casa Bianca. Questi elettori
si fidano ancora molto del presidente. Secondo un sondaggio del Public religion
research institute, due terzi degli elettori più fedeli di Trump credono che
“il paese abbia bisogno di un leader disposto a infrangere le regole se serve a
sistemare le cose”.
Inoltre l’84 per cento degli elettori
repubblicani approva quello che Trump ha fatto finora. Il Partito repubblicano,
invece, continua a essere molto più impopolare, ed è difficile che i suoi
parlamentari decidano di schierarsi contro il presidente in un’eventuale
procedimento di impeachment, soprattutto nell’anno delle elezioni di metà
mandato.
Nessun commento:
Posta un commento