lunedì 11 dicembre 2017

La guerra culturale di Trump (che porta ad altre guerre…)



da: https://www.internazionale.it/

Trump prosegue la guerra culturale che aveva promesso
di Alessio Marchionna

Nell’ultima settimana è andato in scena uno schema che si ripete periodicamente da quando Donald Trump è entrato alla Casa Bianca, quasi un anno fa. Il presidente prende una serie di decisioni estreme destinate ad avere conseguenze importanti sia negli Stati Uniti sia nel resto del mondo; la maggior parte dei commentatori e dei politici resta spiazzata e si affanna per trovate l’ipotetico filo comune che lega scelte apparentemente irrazionali (e in alcuni casi in contrasto tra loro); gli sforzi di tracciare un profilo politico che serva da guida per il prossimo futuro falliscono, e l’opinione pubblica mondiale si ritrova con una serie di domande apparentemente senza risposta.

Perché Trump ha deciso di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele in un momento in cui le tensioni regionali sono ai massimi storici? Perché decide di ufficializzare il suo appoggio al candidato repubblicano al senato Roy Moore, accusato di aver molestato alcune minorenni tra gli anni settanta e ottanta, mentre in tutto il mondo sembra esserci un risveglio contro la violenza di genere?


Perché fa di tutto per far approvare una riforma fiscale che aiuta le grandi aziende e le fasce più ricche della popolazione a scapito di milioni di famiglie della classe media? Perché decide di alzare lo scontro con i democratici sullo shutdown, il blocco delle attività del governo che si verifica in caso di mancata approvazione di una legge finanziaria, in un momento in cui la tensione tra i due partiti al congresso era diminuita?

Trump è salito al potere soffiando sul tribalismo
Come hanno fatto notare in molti, naturalmente la risposta ha a che fare anche con l’esigenza di spostare l’attenzione dall’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller sul cosiddetto Russiagate, il presunto tentativo del governo di Mosca di condizionare il voto del novembre 2016 probabilmente in accordo con il comitato elettorale di Trump.

Ma questa spiegazione non è sufficiente, e forse per trovarne una più efficace bisogna lasciare da parte l’idea tradizionale su ciò che motiva le decisioni politiche (le alleanze internazionali, le dottrine economiche, le trattative parlamentari) e andare alle radici del “trumpismo”, che più che un modello politico è un’attitudine verso il potere, fondata su una serie di imperativi, il più importante dei quali prevede che ogni decisione debba portare a una vittoria che sia clamorosa, schiacciante e immediata.

È chiaro che in assenza di una visione politica quest’attitudine si traduce in scelte che rompono con il passato e servono a creare il caos quando in tutto l’occidente l’opinione pubblica chiede di superare lo status quo.

La promessa
Apparentemente Trump continua a misurare tutte le sue decisioni, sia in politica estera sia al livello nazionale, in base a due criteri: quanto si discosta dalle scelte dei suoi predecessori, soprattutto da quelle di Barack Obama, un presidente che Trump ha sempre considerato illegittimo, e quanto servono a tenere viva l’indignazione della base politica che lo ha portato alla Casa Bianca. In altre parole, il presidente sta facendo di tutto per far scoppiare la guerra culturale che – tolti gli elementi folcloristici – era la promessa centrale della sua campagna elettorale.

Nel caso di Gerusalemme molti hanno fatto notare che con la sua decisione Trump non ha solo allontanato una soluzione pacifica nel conflitto tra Israele e Palestina ma ha anche a contribuito a infastidire tutto il mondo arabo, un fatto che potrebbe dare all’Iran un’arma per aumentare la sua influenza nella regione e alla lunga a ridurre il peso degli Stati Uniti.

Trump è certamente consapevole di poter scatenare un nuovo conflitto in Medio Oriente, ma da presidente poco interessato agli equilibri internazionali, e al ruolo del suo paese nel mondo, considera molto più importanti i risvolti di questa decisione sul fronte interno. Trump è salito al potere soffiando sul tribalismo, appellandosi ai valori ebraici e cristiani e rifiutando l’idea dei valori universali dell’occidente, e questo si è quasi sempre tradotto in una retorica estremista contro quello che lui considera il mondo musulmano, un calderone in cui finisce di tutto, dagli abitanti della Striscia di Gaza all’uomo che uccide 49 persone in un locale gay di Orlando fino agli attentati del gruppo Stato islamico in Europa.

Da questo punto di vista accontentare il più possibile il premier israeliano Benjamin Netanyahu è il modo più facile per riaffermare quei valori e creare scompiglio.

Un facile calcolo politico
Su Roy Moore e sulle violenze di genere la guerra culturale di Trump è ancora più evidente. Molti si chiedono cosa spinga il presidente a difendere Moore e ad attaccare le donne che lo hanno accusato di molestie, con il rischio che l’opinione pubblica statunitense ricominci a parlare delle accuse venute fuori durante la campagna elettorale del 2016, quando tredici donne accusarono lo stesso Trump di molestie.

Ma anche in questo caso c’è un calcolo politico facile: Trump è andato al potere sconfiggendo la prima donna candidata alle presidenziali e con metà del paese indignata per un video in cui si vantava delle sue molestie sessuali; è convinto di non poter perdere consensi su questo tema, mentre considera molto più importante conservare il seggio repubblicano al senato (si vota per sostituire Jeff Sessions, che ha lasciato il suo seggio per fare il ministro della giustizia).

Se il 12 dicembre Moore sconfiggerà Doug Jones, il candidato democratico, Trump potrà sbandierare una vittoria politica e una culturale, quella contro il movimento emergente contro la violenza di genere. Per ora le cose sembrano andare secondo i suoi piani: i repubblicani, che avevano tolto il loro sostegno a Moore quando erano venute fuori le prime accuse, si sono ricompattati dietro al candidato, e un sondaggio del Washington Post mostra che in Alabama sei donne su dieci voteranno per Moore.

Contro i giovani e le minoranze
Per Trump anche la riforma fiscale, un provvedimento che sembra uscito dal manuale della destra tradizionale, rientra nel piano di scatenare una guerra culturale, in questo caso contro i giovani e le minoranze, i gruppi che si sono opposti di più alla sua ascesa politica. Come spiega Ronald Brownstein sull’Atlantic, “la riforma fiscale concede enormi benefici alle famiglie statunitensi più ricche, un gruppo di persone prevalentemente bianche e anziane. Il conto lo pagheranno le generazioni più giovani attraverso l’aumento del debito pubblico, il taglio della spesa sociale e le tasse più alte. In questo senso la riforma aggraverà la disuguaglianza tra le generazioni”.
Queste misure si allineano perfettamente con l’obiettivo politico del trumpismo, cioè mettere un’argine ai cambiamenti demografici, che sono destinati a trasformare la politica e la società statunitensi. Continua Brownstein:
La popolarità dei repubblicani tra i bianchi più anziani, in particolare quelli non laureati e lontani dalle grandi aree urbane, è stata cruciale nell’ascesa di Trump e nell’approvazione della riforma fiscale. Le basi demografiche di questo dominio politico, tuttavia, si stanno erodendo. Dal 1978 i baby boomer sono la generazione di elettori più numerosa e votano compatti per i repubblicani. Ma, secondo il Center for american progress, nel 2018 per la prima volta gli elettori nati tra il 1980 e il 2000, i cosiddetti millennial, supereranno i baby boomer. I postmillennial, gli statunitensi nati dopo il 2000, aumenteranno il vantaggio. Questo slittamento generazionale innescherà un profondo cambiamento razziale: mentre l’80 per cento dei baby boomer è bianco, più di due quinti dei millennial e quasi la metà dei postmillennial non lo sono.

L’offensiva politica di Trump è stata completata dalla scelta di ridurre notevolmente l’estensione di due importanti parchi nazionali dello Utah, il Bears Ears national monument e il Grand Staircase-Escalante national monument.

Il primo, istituito da Barack Obama nel 2016, perderà l’85 per cento del suo territorio, mentre il secondo sarà dimezzato. In totale ottomila chilometri quadrati non saranno più protetti dal governo federale e gli amministratori locali potranno consentire lo sfruttamento di aree ricche di risorse minerarie. Questo provvedimento colpisce uno dei bersagli preferiti della guerra culturale di Trump, cioè la lotta ai cambiamenti climatici e il declino dell’industria manifatturiera. In precedenza Trump aveva annunciato che gli Stati Uniti usciranno dall’accordo di Parigi sulla riduzione del riscaldamento climatico e aveva abolito una serie di misure volute da Obama per ridurre l’inquinamento.

Messi insieme, questi provvedimenti sono l’essenza del programma politico di Trump, e spiegano anche perché il presidente se ne stia ancora stranamente tranquillo sul fronte della vicenda russa.

In questi undici mesi ha continuato a compattare la base politica che l’ha portato alla Casa Bianca. Questi elettori si fidano ancora molto del presidente. Secondo un sondaggio del Public religion research institute, due terzi degli elettori più fedeli di Trump credono che “il paese abbia bisogno di un leader disposto a infrangere le regole se serve a sistemare le cose”.

Inoltre l’84 per cento degli elettori repubblicani approva quello che Trump ha fatto finora. Il Partito repubblicano, invece, continua a essere molto più impopolare, ed è difficile che i suoi parlamentari decidano di schierarsi contro il presidente in un’eventuale procedimento di impeachment, soprattutto nell’anno delle elezioni di metà mandato.

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