domenica 6 giugno 2021

Nessuna nomina potrà cambiare la Rai

 


da: Domani – di Stefano Balassone

La storia, vista da dentro, di come non basti un nuovo Consiglio d’amministrazione per cambiare le cose. Il servizio pubblico rimane invischiato nei suoi problemi storici, incapace di reagire ai tempi che cambiano. È la tv di stato, bellezza: per rivoluzionarla devono mutare le volontà politiche e gli interessi economici.

La Rai può apparire ai giovani, specie a quelli che maggiormente divorano notizie e racconti fra social e piattaforme, una sorta di Colosseo, teatro di azioni dal sapore antico, e privo tuttavia, del fascino delle pietre venerande. Qualcosa che a quei freschi occhi appare seducente quanto un comunicato del governo o le poesie di un ragioniere. È dunque immaginabile quanto poco gliene importi del prossimo rinnovo del Consiglio d’amministrazione di quel rudere. Ma hanno torto i giovani, e qui glielo diciamo, a infischiarsene dell’azienda del Cavallo perché questa, fatti quattro conti, è al centro dell’intera filiera della produzione radiotelevisiva e di fiction nazionale, dove stanno moltissimi di quei posti di lavoro a cui aspirano i tanti che affollano le aule universitarie di Lettere, Filosofia, Comunicazione.

Ma qualche ragione, pur non sapendolo, ce l’hanno, perché l’esperienza dei decenni lascia pensare che, comunque sia composto, nessun consiglio è davvero rilevante, nonostante che tanti s’appassionino, brighino a favore di qualche candidato o propongono se stessi al parlamento per essere spediti in quella che pensano sia la stanza dei bottoni delle news e

dello spasso. Tapini che non sanno (eppure si tratta in genere di gente che ha studiato) che, anche se assurgessero allo scranno e alle reverenze degli uscieri, gli toccherebbe un ruolo privo di qualsiasi carattere incisivo o tutt’al più simile a quello delle cariatidi di marmo che ad Atene usano la testa per sorreggere un soffitto. E per questo che offrire un incarico siffatto, risonante eppur passivo, non è ad essere sinceri cosa onorevole né per chi la propone né per chi l’accetta. Unica scusante è che entrambi siano molto ingenui o ignorantissimi.

I primi passi

Il primo tipo di Cda di cui torna conto di parlare è quello che esordì nel 1976, composto di 16 individui scaglionati nel “numero di telefono”, così definito da Craxi che non mancava d’ironia, 6-3-1-1-1 (sei Dc, quattro Psi, tre Pci, assortiti per correnti, 1 Psdi, 1 Pri, 1 Pli). Persone spedite sulla cima dell’azienda da quando a fine anni Settanta il monopolio Rai era terminato e che rappresentavano la Prima repubblica del cavallo. In quei tempi l’azienda si  adattò gli equilibri politici correnti che le chiedevano di passare dal monopolio solitario alla combutta del Biscione, al fine di tenere fuori campo chiunque altro. Ma dopo 17 anni, all’alba dei Novanta, la prima Repubblica crollò sotto il muro di Berlino e con essa i partiti che fungevano da “editori di riferimento” (Bruno Vespa dixit).

Nel 1993 si decise per il passaggio a un formato di consiglio snello di cinque unità. Perché, quando i posti sono pochi, si tengono meglio a bada partiti, correnti, camarille e cosche. Per contro, chi ci si trova dentro è indotto a farsi carico di un qualche grado di rappresentanza generale, a ragionare di testa propria. In più, a nominare i cinque di cui sopra, non provvedeva più la Commissione parlamentare di vigilanza, ormai ritenuta pari alle peggiori bettole di Caracas, ma badavano i presidenti di Camera e Senato, a firma congiunta, nell’auspicio che l’altissima funzione li facesse refrattari alle pretese vergognose.

Il primo esito della nuova procedura fu nel 1993 il quintetto dei “professori”, cioè persone colte e assai per bene, assai valide ognuna nel suo campo: economia, filosofia, libri, diritto, stampa quotidiana. Da quelle altezze, si auspicava, avrebbero fatto levitare dalle sordide bassure la carne peccatrice dell’azienda lottizzata, compensando con questa magia il fatto che nulla sapessero di storia, dinamiche, linguaggi e pubblico della televisione. Cinque Giovanna d’Arco, ma con l’aggiunta di un freno a mano costituito dal direttore generale, che giornalista era per  intero, dal cappello fino a giungere alle suole, e che, in effetti, subito s’intese con l’anima più corporativa e ramificata di quel mestiere nella Rai A rendere vulnerabile quel cinque più uno stava l’ennesima emergenza di bilancio ereditata dal passato che fu usata dal primo governo Berlusconi (1994) per sloggiarli poco dopo e fare spazio al secondo quintetto, composto da tre ricconi, un tirapiedi della politica romana e un brillante storico in funzione di foglia di fico dell’insieme.

Concluso il biennio del mandato, a rinnovare l’organo provvide nel 1996 l’Ulivo, che aveva vinto a suon di Mattarellum. Ne derivò un Cda dal taglio mandarino, che fece qualche pasticcio sfidando le logiche dell’audience (del resto nulla ne sapeva tanto che alcuni membri giungevano perfino a detestarla). Così quel consiglio inciampò nei lacci delle scarpe e giunse a dimettersi anzitempo.

Confessa un consigliere

A inizio 1998 ne prese il posto quello in cui anche io – che mi ero dimesso dall’azienda un paio d’anni prima perché mi pareva avviata allo sbaraglio – fui nominato, senza che l’avessi mai chiesto, anche se siete padroni di non crederci, dall’Ulivo esteso a comprendere Rifondazione comunista. Fu lì che, onorato di una considerazione tanto estesa, acceso di entusiasmo temerario, voglioso di porre mano al rilancio dell’azienda, accettai la proposta. Fino a dimettermi, a scanso di conflitto d’interessi, dal ruolo e dal ben maggior stipendio che mi ero trovato nel privato. Insieme agli altri quattro e al direttore generale ci gettammo tutti a lavorare, tanto più che Mediaset, alias Forza Italia, aveva appena perso le elezioni e pareva meno in grado di condizionare le sorti della Rai, tanto che proprio allora Berlusconi stava tentando di rifilare a Rupert Murdoch il suo Biscione.

Lo spazio pareva dunque sgombro per articolare in modo chiaro le funzioni dell’azienda, eliminare ridondanze e sovrapposizioni, riqualificare le strutture informative regionali, lanciarsi sulle piattaforme, allora nuove, del satellite. Separare la commistione velenosa fra la risorsa pubblica e la pubblicità assegnandole a canali ben distinti e separati. In sei mesi era pronto e deliberato ogni disegno ed ebbe inizio la fase d’attuazione della “divisionalizzazione” della Rai. Non era farla a pezzi, ma, al contrario, ricomporla per missioni: prendi questa struttura e spostala per intero, scindine un’altra, cancella quella e inventane una nuova. Un intenso lavoro cuci e scuci, condotto dai dirigenti stessi dell’azienda con la necessaria competenza. Ma campato, purtroppo, molto in aria perché la mappa vera dell’azienda non è quella formale, ma l’altra che, allora come oggi, guarda ai poteri esterni che non passano e per davvero lanciano o stroncano carriere.

La lezione

Perché la Rai cambi non basta, questa è la lezione che rapidamente apparve chiara, operare solo su di essa se prima non l’hai resa autonoma e sovrana, capace di perseguire a modo proprio i fini che la politica (dal governo al parlamento) le assegna. Mentre è ovvio che se la politica bada solo ad avere i propri amici nelle stalle del cavallo il Cda diviene, ben che vada, un soggiorno di manager in vacanza, di anime belle e di simpatiche canaglie. Mentre chi dall’azienda attende lo stipendio vede il vertice aziendale come un meteorite di passaggio, bada a fare il suo lavoro, ma non sarà mai così incauto da rescindere i rapporti con il personale politico della maggioranza del momento o della minoranza che attende il turno proprio. Ecco perché la grande impresa di riorganizzazione che auspicammo e impostammo nell’invidiato ruolo di membri del Cda Rai si dissolse come neve al sole non appena il centrodestra, vinte le elezioni, designò nel 2002 un ulteriore quintetto di Consiglio, consociativo con le opposizioni, ma diviso da confini politici più netti e per di più pressato, dall’interno e dall’esterno, dagli emissari dell’azienda di proprietà del capo del governo, che era, per chi non lo ricordi, Berlusconi.

Nel contempo era venuta tramontando, anche presso gli avversari più accaniti del Duopolio, l’idea che questo fosse un male e che andasse in ogni modo superato. A metterci una pietra sopra provvide Maurizio Gasparri, ministro delle Comunicazioni nel secondo governo Berlusconi, che completò la marcia indietro portando, a partire dal 2005, da cinque a nove i membri del Consiglio e riaffidando le nomine alla Commissione di vigilanza perché fossero più agevolmente lottizzabili. Così i partiti di nuovo conio, vuoti di progetto e tutti presi dal far contento Tizio anziché Caio, trovavano in questa potestà la sola ragione per assecondare le sorti della Rai. Ognuno avendoci dentro una sua cosa, ma non fino al punto da considerarla tutti insieme Cosa Nostra.

Io nel frattempo, come capita a chi si fa educare dalle proprie Waterloo, spremevo in qualche libro l’esperienza condotta a spese degli utenti. A ripensarci a distanza di decenni, la foga riformatrice che ci aveva spinto era giustificata, tant’è che nei vent’anni successivi la posizione del servizio pubblico non è di certo migliorata. Ma per intraprendere le sfide occorre che le circostanze siano coerenti e, quando così non è, occorre la prudenza di rinunciare a un’azione scapestrata.

I Cda del secolo XXI

Reso il mea culpa doveroso, era impossibile non tenere d’occhio le imprese dei successivi Cda Rai, così come un ex alcolizzato non evita di sbirciare nel bicchiere del vicino. Gli affollati consigli voluti da Gasparri più che lasciare un segno sull’azienda le infliggevano ferite, con l’aiuto (a Roma si dice “aiuti per la scesa”) di direttori generali poco sensibili alla gloria. Poi sull’onda della crisi finanziaria arrivarono i “tecnici” di Monti che nel 2012 piazzò in Rai un vero direttore generale mentre i partiti, incalzati dalle chiacchiere di Grillo (allora in grande spolvero), autocertificavano purezza nominando qualche stimabile individuo. Luigi Gubitosi, il suddetto direttore, fece cose rilevanti e serie, ma solo rispondendo a successive direttive del governo e senza correre il rischio dell’audacia. Di suo ci aggiunse il progetto di ridurre le tante testate giornalistiche a una sola, come accade del resto per ogni azienda tv in tutto il mondo. Per la Rai si tratta di una, forse “della”, questione capitale per emanciparsi dal passato. Ma l’astuto Gubitosi promulgò il progetto “in limine”, cioè quando era già con un piede fuori dall’azienda e diretto ad altri incarichi. Evidentemente, o i tre anni in Rai gli erano occorsi tutti interi per accorgersi di quel problema gigantesco oppure gli parve meglio lasciare un bel progetto ai consigli successivi che parevano più idonei perché di nuovo snelliti nel 2015 da Matteo Renzi, che li ridusse a sette membri con il più dei poteri consegnati all’amministratore delegato.

Sembrava il trionfo della politica del fare, ma invece l’inerzia prudenziale l’ebbe vinta anche stavolta e il progetto fu riposto in un cassetto, esposto alla rodente critica dei topi, come disse Karl Marx di un suo a lungo ignorato manoscritto.

Tornare soggetto

L’ultimo consiglio, proprio quello che oggi giorno dopo giorno va svanendo, anziché correre rischi incontrollabili, ha tirato fuori dal cappello la trovata della “Società di consulenza”. Gente esperta del latinorum che imbelletta le piaghe dell’impresa, pronta a fornirti qualsiasi piano anche industriale e perfino doppio, denso di dati e di prospettive mondiali, ricche e ben descritte. Opere ornamentali e ben pagate con le quali il triennio del mandato è stato ammazzato a suon di chiacchiere essendo tutti ormai scaltriti quanto basta a evitare le fughe in avanti e stare ben fermi per scansare le insidie di ogni fare.

È possibile che i prossimi consiglieri (quattro) nominati dal parlamento con voto consociato, insieme con il rappresentante dei dipendenti Rai e con l’aggiunta del presidente e del direttore generale indicati dal governo, debbano affrontare stavolta una sfida più incalzante. La tv tradizionale, di cui la Rai tuttora è parte, è infatti sotto attacco da parte dei giganti tecnologici, dei social, delle piattaforme sull’online. Può dunque essere che la trippa del Duopolio sia finita e che gli stessi che ieri volevano tutto conservare oggi siano disposti a qualche rivoluzione, almeno mezza se non tutta intera. Sarebbe quindi gran cosa che anche i quattro nomi che emergeranno dagli accordi in parlamento non siano pellegrini pieni di meraviglia a naso alzato, ma capaci di saldarsi con il resto del consiglio e con l’azienda, per svolgere pedagogia riformatrice nei confronti degli stessi mondi politici che li avranno designati. Perché, mezza o completa, qualsiasi rivoluzione nella Rai deve essere accompagnata da un sommovimento delle volontà politiche e degli interessi economici che finora dall’esterno l’hanno resa impossibile a priori.

A dirla in breve, si tratta di premere il legislatore da ogni parte, come hanno fatto da ultimo i sindacati confederali della comunicazione e le 120 firme del manifesto nuova Rai, affinché con poche norme ben assestate l’azienda passi dallo stato di oggetto a quello di soggetto, capace in quanto tale di assumere la forma adatta alle tempeste  del presente e del futuro e a generare sviluppo per chi ci lavora e per l’insieme della produzione nazionale.

Consiglieri da evitare

Il problema è che gli animali adatti a questo tipo di “fatiche da consiglio” sono rari. Alcune specie, secondo quanto abbiamo visto e conosciuto, sono in particolare da evitare: gli scudieri politici di rincalzo, i profughi della tv commerciale, i commis di stato membri di cordata, specie nel ruolo di direttori generali nel quale si ricordano almeno un paio di tristissimi esperienze; lo sbriga faccende di provincia catapultato a viale Mazzini per intrecciare relazioni che lo proiettino in un altrove più lucroso; l’esperto di finanza bravo a comprare invece che a produrre perché detesta la creatività industriale con tutte le sue rogne; il moralista che vede la televisione come un pulpito; quello che vuoto d’idee sul servizio pubblico si rifà al maestro Manzi di cui ha sentito dire; il giurista convinto che la realtà si scolpisce con la legge mentre sovente è meglio che avvenga esattamente l’incontrario; l’infatuato della cultura e degli artisti, ma con un occhio attento alle modelle. Tutti costoro sarebbe bene che la tv se la guardassero da casa.

È mai possibile che da tante sabbie mobili prenda il volo una riforma strutturale della Rai? Può pensarlo solo un folle. Se non fosse che pareva impossibile anche avere in gestione 200 miliardi e passa di fondi europei, che fosse sospeso il trattato di Maastricht e che tutto avvenisse sulla spinta dei tedeschi che fino allora l’avevano impedito. È vero che a convincere i tedeschi c’è voluto il Covid-19 e che solo questa pressione e il bisogno di quei soldi produrrà, vale sperarlo, lo sblocco di ben altre riforme strutturali: fisco, giustizia, burocrazia. Con tempeste di problemi a fronte delle quali quella della Rai sarebbe un venticello.

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