mercoledì 23 giugno 2021

Gianrico Carofiglio: La disciplina di Penelope / 4

 


Immaginate di rimanere impigliati in un procedimento penale. Per un concorso di circostanze, pur essendo innocenti, a vostro carico ci sono indizi. Insufficienti per farvi arrestare e per consentire la prosecuzione del procedimento. Sufficienti a fare scrivere nel decreto di archiviazione che i sospetti a vostro carico sono inquietanti. Non potete farci niente; nemmeno se un giornale cita quelle frasi e chiunque lo legga si convince che siete un colpevole che l’ha fatta franca. Se provate a querelare il giornale vi risponderanno che loro non hanno fatto altro che riportare quello che ha scritto il giudice. E perderete la causa.

Quando si archivia si dovrebbe dire semplicemente che non ci sono elementi per esercitare l’azione penale, nel modo più asettico possibile. Spesso non avviene. Quando facevo il pubblico ministero la cosa mi inquietava di meno. Per così dire. Diciamo che stando da quella parte, in quell’epoca della mia vita, ero meno sensibile a certi temi.

«Ho chiesto se non c’era modo di richiedere altre indagini, che esplorassero altre piste, altre ipotesi. Magari non avrebbero portato all’individuazione del vero colpevole, ma almeno mi avrebbero liberato da quel sospetto. L’avvocato ha detto che non c’era nulla da fare. O perlomeno che non c’era nulla che potesse fare lui. In teoria, ha detto, poteva essere lavoro per un investigatore privato. Ma in pratica mi ha sconsigliato di assumerne uno. Ha detto che non sarebbe servito a niente. Ha detto che gli investigatori privati risolvono i casi solo nei romanzi e nei film. Mi ha detto di andare avanti, di cercare di dimenticare – quell’archiviazione sarebbe stata sepolta in breve dal tempo e dalla polvere – e di rifarmi una vita.»

«Perché mi racconta tutto questo? Perché ha chiesto di incontrarmi?»

Mario Rossi si tolse gli occhiali, con pollice e medio della mano destra si strofinò il naso e gli angoli degli occhi. Era diverso senza occhiali. Tutti lo siamo, ma alcuni di più. Pensai che era un uomo bello. Bello e fragile. Rimise gli occhiali.

«Dopo aver parlato con l’avvocato, non sapendo che fare, non sapendo a chi rivolgermi ho cercato Filippo Zanardi. Era il giornalista che ha più seguito la vicenda di mia moglie. In quei mesi ci siamo incontrati diverse volte, anche se io non ho mai voluto fare interviste. Gli ho detto che accettavo di parlare con lui se mi prometteva che non avrebbe riportato mie dichiarazioni. Mi sembrava una cosa molto inopportuna, sbagliata. Quando in passato mi era successo di leggere di casi di… insomma, casi gravi come questo, avevo avuto un forte senso di fastidio a sentire parenti delle vittime che rilasciavano interviste e dichiarazioni. Era una cosa… non trovo la parola…»

«Oscena?»

«Oscena, sì. È la parola esatta. Comunque Zanardi ha sempre rispettato il nostro accordo. Ha scritto molte volte sul caso e certamente le cose che ho detto gli sono servite, ma non mi ha mai citato e tantomeno ha messo mie frasi fra virgolette. Diciamo che è nato un rapporto personale.»

«Cosa c’entra Zanardi col fatto che siamo qui a parlare?»

«A un certo punto gli ho chiesto cosa pensava dell’ipotesi di assumere un investigatore privato. Lui mi ha detto praticamente le stesse cose dell’avvocato ma ha aggiunto che, se proprio volevo fare un tentativo, potevo parlare con lei.»

«A che scopo?»

«Voglio che scopra chi ha ucciso mia moglie. E per quale motivo.»

Feci un lungo respiro. «Mi spiace, ma è un lavoro che non posso fare. A parte ogni altra considerazione, non ne ho i mezzi.»

Lui non disse nulla. Fece solo un cenno col capo: mi ascoltava.

«È molto improbabile che un privato riesca a fare quello che non sono riusciti a fare polizia e procura. Un’agenzia di investigazioni regolare, cui dovesse rivolgersi dopo aver parlato con me, accetterà l’incarico, le chiederà un bell’anticipo, farà qualche tentativo, non scoprirà nulla di rilevante o comunque di utile, le scriverà una bella, lunga relazione piena di chiacchiere e di allegati per giustificare anticipo e saldo e la saluterà con una pacca sulla spalla.»

«Infatti Zanardi mi ha detto che, se c’è una persona capace di risolvere questo caso, quella è lei.»

«A Zanardi piacciono le frasi a effetto, quando scrive e quando parla. Ha ragione solo su una cosa: meglio non andare da detective privati, sono soldi buttati. Ma sarebbero soldi buttati anche con me. Mi dispiace ma deve rassegnarsi. È spiacevole che l’abbiano sospettata, ma d’altro canto non hanno fatto troppi danni. Non è stato mai arrestato, hanno solo indagato su di lei. Capisco quanto possa essere increscioso. È finita bene però, hanno archiviato anche se qualche espressione del decreto di archiviazione le è dispiaciuta. Può essere che in un futuro imprecisato l’assassino di sua moglie salti fuori. Magari viene preso dal rimorso e dal bisogno di espiare… è improbabile, ma a volte accade; oppure si confida con qualcuno e questo qualcuno lo racconta a qualcun altro fino a che la voce non arriva a qualche poliziotto o a qualche carabiniere e il caso viene riaperto.»

“Sempre che il responsabile non sia davvero tu” pensai mentre finivo la frase. Anche se, in questo caso, perché rivolgersi a qualcuno per un’indagine privata? Forse per precostituire una difesa nell’ipotesi di una riapertura, per qualsiasi ragione, dell’indagine pubblica? Non lo avrei mai saputo.

La voce di Rossi interruppe quel flusso di pensieri.

«Ho paura che mia figlia, quando sarà grande, possa anche solo dubitare di me o addirittura convincersi che io abbia ucciso sua madre. Per questo – soprattutto per questo – voglio che sia scoperto l’assassino.»

Presi il pacchetto delle sigarette, ne tirai fuori una e la misi fra le labbra. Strinsi l’accendino per qualche secondo prima di lasciarlo e togliere la mano dalla tasca del giubbotto.

«Quanti anni ha la bambina?»

«Sette.»

«È come ha detto il suo avvocato: quando sua figlia sarà grande il fascicolo e tutta questa storia saranno davvero seppelliti dal tempo e dalla polvere. Saprà solo che sua madre è stata uccisa – certo, un pensiero con cui non è facile convivere – e che l’assassino non è stato preso.»

Mario Rossi scosse il capo. «Io al suo posto, diventato grande, vorrei cercare di capire cosa è successo. Se mia figlia ragionasse com

e me, un giorno potrebbe procurarsi gli atti e leggere che c’erano inquietanti sospetti su suo padre. E non voglio che accada. Questo pensiero mi ossessiona. Lo capisce?»

«Le secca se usciamo? Vorrei fumare.»

Lui annuì, prese la borsa con un movimento che mi parve goffo, uscimmo.

«Capisco la sua angoscia» dissi, dopo aver acceso la sigaretta. «Ma passerà. Sua figlia crescerà con lei e questa idea che da adulta vada alla ricerca degli atti di quel procedimento è un’ossessione priva di fondamento.»

In realtà non ero così sicura di quello che stavo dicendo. Forse aveva ragione. Forse io stessa, al posto di quella bambina, diventata grande avrei voluto fare proprio quello che temeva lui. Ma non era esattamente la cosa da dirgli.

«Il suo avvocato ha ragione. Vada avanti. Non le dico: cerchi dimenticare. Ma il tempo sistema parecchie cose.»

«Non vuole neanche leggere gli atti?»

«Arrivederci, signor Rossi» dissi spegnendo il mozzicone sotto il tacco del mio scarponcino. «Mi dispiace, purtroppo non sono io la soluzione al suo problema.»

 

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