domenica 20 giugno 2021

Gianrico Carofiglio: La disciplina di Penelope / 3

 


Esattamente un anno, un mese e tre giorni prima, sua moglie Giuliana Baldi una sera non era rientrata. Capitava abbastanza spesso che tardasse. Faceva l’istruttrice di fitness, lavorava soprattutto come personal trainer e a volte andava a casa di clienti anche sul tardi. A volte poi usciva con delle amiche ma, se tardava, avvertiva sempre.

La sera del 13 ottobre 2016 non era rientrata e nemmeno aveva detto che avrebbe fatto tardi. Il cellulare era staccato. Lui, Mario Rossi, aveva chiamato in palestra: stavano chiudendo e gli avevano detto che quel pomeriggio Giuliana non si era vista. Non c’erano corsi che teneva lei ed evidentemente non aveva nessuna lezione personale in palestra. Forse aveva lavorato a casa di qualche cliente, ma non sapevano chi potesse essere. No, non avevano un elenco dei suoi clienti personali, la palestra prendeva una percentuale su quelli che venivano ad allenarsi lì, per gli altri era un affare privato dell’allenatore o dell’allenatrice.

Quando si era fatto davvero tardi Rossi era andato in questura, aveva aspettato un bel po’ davanti all’ufficio denunce e alla fine era riuscito a parlare con un ispettore. Tutto sommato il poliziotto era stato comprensivo, aveva detto che trattandosi di persona maggiorenne non c’era molto che potessero fare, non si poteva nemmeno escludere che si fosse allontanata di sua spontanea volontà. In ogni caso avrebbe raccolto la denuncia e diramato una nota alle volanti. Poi avrebbero portato l’informativa in procura e il magistrato di turno avrebbe deciso se era possibile acquisire i tabulati del cellulare o fare altri atti di indagine.

Non ce n’era stato il tempo, però: il giorno dopo, nel pomeriggio, il corpo della donna era stato rinvenuto in un’area incolta alla periferia di Rozzano.

«Chi l’ha trovata?»

«Un pensionato che portava il cane a fare una passeggiata.»

Mario Rossi raccontava la storia con uno strano distacco; meglio: con una specie di neutralità, senza tentennamenti emotivi. Usava espressioni molto appropriate, cercava la parola più adatta per dire quello che doveva. “Area incolta”, per esempio. L’eccessiva accuratezza linguistica di un teste che dovrebbe essere emotivamente coinvolto in quello che racconta è sempre un fattore da annotare – ma non per trarne in modo automatico la conseguenza che sta mentendo. Bisogna stare attenti alle intuizioni investigative; bisogna stare attenti a non saltare subito alle conclusioni attraverso gli indicatori linguistici. In realtà bisogna stare attenti a non saltare subito alle conclusioni e basta, indicatori linguistici o altro. Parlare in un certo modo può significare una cosa ma, a volte, esattamente il suo contrario.

Se stai ascoltando un testimone e lui suda, è pallido, insomma manifesta segni di nervosismo o di paura, questo può significare che sta mentendo; ma può anche significare che, essendo una persona molto emotiva, subisce lo stress della situazione. Per un poliziotto, per un carabiniere, per un magistrato interrogare un teste, occuparsi di fatti gravi o gravissimi è parte di un lavoro che, come tutti, diventa routine. Per il teste è un evento eccezionale e stressante, una cosa che con ogni probabilità non gli è accaduta prima e con ogni probabilità non gli accadrà mai più dopo. Dunque certi indicatori – il pallore, il sudore, il torcersi le mani o, come nel caso di Rossi, l’uso di un linguaggio preciso e distante – devono suscitare attenzione quando non sospetto. Ma non devono farti saltare subito alle conclusioni. Saltare alle conclusioni è come mettersi dei paraocchi che ti impediscono – letteralmente ti impediscono – di vedere tutto quello che contrasta con quelle conclusioni e che invece potrebbe essere decisivo.

E così le parole molto precise in un soggetto che dovrebbe essere coinvolto emotivamente possono significare menzogna ma possono anche esprimere un tentativo di difesa dall’impatto doloroso di una esperienza traumatica.

Un linguaggio freddo e distante – come quello dei verbali, per capirci – consente di tenere la sofferenza sotto controllo. Ognuno si difende dal dolore o dalla paura come sa e come può.

«Chi è intervenuto sul posto?» chiesi.

«In che senso?»

«Voglio dire: sono arrivati i carabinieri o la polizia?»

«La polizia.»

Rossi si fermò, pareva aspettarsi qualche altra domanda.

«Vada avanti, la ascolto.»

Era arrivata la polizia, poi era arrivato il medico legale e poi il sostituto procuratore di turno. Già solo dall’esame esterno si capiva che la causa del decesso era un colpo di pistola alla testa e che la donna non era morta lì dove era stato ritrovato il corpo. Le macchie ipostatiche segnalavano che nelle ore immediatamente successive il corpo era stato in posizione diversa da quella del ritrovamento.

«Aveva il cellulare, il portafogli, eventuali oggetti di valore?»

«No. Né il cellulare, né il portafogli, né i gioielli.»

«La fede nuziale?»

«Non la portava.»

«C’erano altri segni di violenza, oltre alla ferita?»

«No. Dall’autopsia è risultato che è stata attinta» – disse proprio “attinta”, una tipica parola da verbali e da referti autoptici – «da un solo colpo d’arma da fuoco alla testa e che la morte è stata immediata.»

Pronunciò le ultime parole con un tono quasi esibito di sollievo. Doveva esserselo ripetuto molte volte da solo, che almeno sua moglie non aveva sofferto quando era stata uccisa.

«Il proiettile?»

«Calibro 38. L’hanno recuperato con l’autopsia.»

«Lei l’ha letta?»

«Ho letto tutti gli atti del procedimento. Ma non ho guardato le foto, se è questo che voleva chiedermi.»

Era quello che volevo chiedergli, mi limitai a un cenno del capo. «È andato sul posto?»

«No, abbiamo fatto il riconoscimento all’obitorio.»

«Poi sono venuti a casa?»

«Sì, mi hanno chiesto se potevano venire a dare un’occhiata. Ho detto di sì, naturalmente.»

«Ma non hanno dato solo un’occhiata, vero?»

«No. Hanno guardato ovunque. C’era uno che parlava con me, faceva l’amico. Gli altri però cercavano dappertutto. Hanno parlato anche con i condomini.»

«Hanno portato via qualcosa?»

«No, ma il giorno dopo sono tornati con la scientifica e un avviso di garanzia in cui c’era scritto che ero indagato per omicidio volontario. Mi hanno detto che era solo una formalità, era indispensabile l’avviso di garanzia per fare… come si chiama…»

«Accertamenti tecnici irripetibili?»

«Sì, questo.»

«Lei ha nominato un avvocato?»

«Sì, è venuto a casa. Ha presenziato alle operazioni.»

«Hanno fatto il luminol?»

Il luminol è un composto chimico usato dalla polizia scientifica per recuperare tracce latenti. Funziona anche quando il sangue è stato apparentemente eliminato con il lavaggio e, fra l’altro, evidenzia la presenza di candeggina, usata spesso per rimuovere le tracce ematiche. Altro che formalità nell’avviso di garanzia, mi dissi: se avevano fatto il luminol a casa di Rossi sospettavano che l’omicidio si fosse verificato proprio lì.

«Sì. Cercavano tracce di sangue. Hanno controllato anche le nostre due macchine.»

«Cosa ne è venuto fuori?»

«Nulla.»

«E dopo questa seconda visita hanno portato via qualcosa?»

«Hanno preso il computer di Giuliana. Me lo hanno restituito dopo avere duplicato il disco rigido.»

«Avete… avete avuto figli? Ci sono bambini?»

«Una bambina.» E poi, come se fosse un’informazione indispensabile: «Non c’era quando hanno fatto la perquisizione. Dal giorno prima era a casa dei nonni, i miei genitori».

«Ci sono anche i nonni materni?»

«No. Giuliana era orfana. Quando l’ho conosciuta aveva già perso i genitori in un incidente stradale.»

Fu in quel momento che mi chiesi per quale motivo mi stesse raccontando tutte quelle cose, e per quale motivo io lo stessi ascoltando senza chiederglielo. «Il procedimento a suo carico è ancora pendente?»

«No. È stato archiviato. Ho copia di tutto il fascicolo. Ce l’ho qui con me» e così dicendo estrasse dalla tasca interna della giacca una chiavetta. «Quando hanno fatto la richiesta di archiviazione il mio avvocato ha chiesto la copia integrale degli atti. Pare che ci sia una sentenza della Corte di Cassazione…»

«È della Corte Costituzionale, in realtà. Dice che l’indagato ha diritto a richiedere e ottenere copia degli atti nel caso di richiesta di archiviazione e la procura deve rilasciarli a meno che non ci siano specifiche ragioni di segreto relative ad altro procedimento.»

«È quello che mi ha detto il mio avvocato. Quando ho letto gli atti e in particolare gli ho chiesto se potevamo fare qualcosa.»

«In che senso?»

«Se era possibile fare appello, o qualcosa del genere.»

«Non si può.»

«Sì, è quello che mi ha detto.»

«Ma perché voleva impugnare il provvedimento? Hanno archiviato, dunque hanno ritenuto che non ci fossero elementi a suo carico.»

«Se legge l’archiviazione si renderà conto del perché.»

Non ci fu bisogno che andassi a cercarla: Mario Rossi la sapeva ovviamente a memoria.

«Cosa c’è scritto nell’archiviazione?»

«Si dice che non ci sono elementi per procedere ma che i sospetti a mio carico sono “inquietanti” anche perché le indagini hanno evidenziato l’insussistenza di ipotesi alternative.»

Non dissi nulla. Capivo il punto di vista: se era davvero innocente, un provvedimento come quello è infamante quasi quanto una condanna. Un giudice non dovrebbe fare considerazioni del genere quando archivia. Si getta una macchia su una persona che non può fare nulla per difendersi perché, appunto, non è prevista l’impugnazione di un decreto di archiviazione. Si possono scrivere le parole più pesanti, impunemente. E chiunque può riprenderle, impunemente.

 

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