mercoledì 2 giugno 2021

Giorgio Meletti: Draghi è caduto nella trappola in cui potrebbe fallire il Pnrr

 


da: Domani

Un drammatico equivoco incombe sulla marcia trionfale del Pnrr e delle grandi opere ferroviarie che ne costituiscono il nerbo. Ci viene raccontata la favola che in Italia i cantieri non marciano per colpa della burocrazia e del partito del no. Tre giorni fa il governo ha approvato l’ennesimo decreto di semplificazione: una serie di deroghe e accelerazioni delle procedure sospettate (fondatamente) di spianare la strada a scempi ambientali e illegalità. Va in scena la farsa di una disputa teologica tra il “partito del no” e il “partito del fare”. I primi agitano lo spettro di mafia, tangenti e disastri ambientali, i secondi replicano che “così non faremo mai niente”. Purtroppo è con le semplificazioni che non abbiamo mai fatto niente.

Preoccupa che un uomo esperto e capace come Mario Draghi si sia infilato in questa commedia all’italiana di cui, essendo all’ennesima replica, conosciamo già il finale. Se la grande occasione del Pnrr richiede la realizzazione delle opere in tempi rapidi, l’apposito decreto crea le premesse tecniche perché la grande occasione vada persa. E questo dovrebbe preoccupare soprattutto chi crede che la ricostruzione del paese dopo la pandemia passi dall’alta velocità Salerno-Reggio Calabria.

Innanzitutto c’è una grottesca contraddizione. Da decenni governi di ogni colore politico si fanno scrivere le misure di semplificazione della burocrazia proprio dai burocrati accusati di essere i frenatori. E i risultati si vedono. Basti la lettura del decreto di venerdì

scorso all’articolo 48 dedicato a “pari opportunità, generazionali e di genere”, che impone, per vincere un appalto Pnrr di assicurare una quota del 30 per cento “all’occupazione giovanile e femminile”, cosicché si potrà realizzare la parità di genere assumendo, insieme a maschi maturi, anche maschi giovani, cioè al di sotto dei 36 anni.

Il disastro annunciato è nel cosiddetto appalto integrato, presentato come una geniale novità. Funziona così. Si fa un “progetto di fattibilità tecnico-economica”, una specie di disegno preliminare che dice dove deve andare quella ferrovia e con quali caratteristiche. Poi, per fare prima, anziché fare il progetto definitivo e poi quello esecutivo da mettere a bando, si fa la gara d’appalto sul “progetto di fattibilità tecnico-economica”: l’appaltatore farà sia la progettazione sia l’esecuzione. 

Strano che Draghi non ricordi che l’appalto integrato è stato il caposaldo di Tangentopoli. Nel 1993, subito dopo l’inchiesta Mani Pulite, fu abolito dalla legge Merloni ma nel 1994 fu reintrodotto dal primo governo Berlusconi. Fu anche il caposaldo della Legge obiettivo (sempre Berlusconi, 2002), ed è stato abolito nel 2016 dalla semplificazione degli appalti del governo Renzi. Il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio festeggiò la fine della «famigerata figura dell’appalto integrato che tanti guai ha portato». 

Chi ha esperienza del mercato delle costruzioni sa che è proprio l’appalto integrato che rallenta i cantieri. Lo stato si consegna all’appaltatore che al momento del progetto esecutivo scopre che la struttura geologica della montagna rende più difficile lo scavo della galleria e comincia a chiedere le mitiche varianti che fanno lievitare i costi e, soprattutto, i tempi. Il cantiere rallenta e la stazione appaltante può solo subire. Direbbe l’Albert Einstein apocrifo: «La follia sta nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». Siccome Draghi non è un folle, sicuramente ci spiegherà che cosa lo induce a pensare che stavolta le cose andranno diversamente.

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