domenica 13 giugno 2021

Gianrico Carofiglio: La disciplina di Penelope / 1

 


Finalmente il suo respiro si fece regolare. Inspirava dal naso ed espirava da un lato della bocca, come un piccolo strumento a mantice. Non era rumoroso; non troppo, non come altri almeno. In condizioni diverse – in una vita diversa – sarebbe stato addirittura possibile dormirci insieme.

Pensai per qualche istante a tutti gli altri; ai suoni grotteschi, quasi caricaturali che alcuni facevano dopo essere sprofondati in un sonno faticoso. Mi venne in mente un libro che era a casa della nonna. Il Paese della Ninna Nanna. Mi ricordavo benissimo le illustrazioni – disegni del passato, il libro era degli anni Trenta – e solo confusamente la storia. C’era una specie di mago che spargeva una polverina per fare addormentare il piccolo protagonista, un bambino con un buffo pigiama a tutina. Che bello sarebbe stato averlo ancora, quel libro. Tornare a casa, sfogliarlo come facevo da bambina quando dormivo dalla nonna, quando lei c’era, quando non era in viaggio. Addormentarmi immaginando che l’uomo del sonno, con la sua polverina magica, arrivasse anche da me. Addormentarmi spensierata. Tanta gente rimane quasi paralizzata quando le domandi a bruciapelo di esprimere un desiderio. Invece se lo chiedessero a me non avrei né dubbi né esitazioni: tornare a addormentarmi come da bambina, a casa di nonna Penelope.

Scivolai con cautela fuori dal letto, attenta a non svegliare l’uomo. Come si chiamava? Alberto, forse, ma non ero sicura, il volume della musica era troppo alto quando c’erano state le presentazioni. Raccolsi le mie cose, sparse fra una poltrona e il pavimento, e raggiunsi il bagno.

Feci scorrere l’acqua in un filo, per non fare rumore. Lo stretto necessario. Poi a casa avrei fatto la doccia e cancellato anche questa esperienza.

Esperienza? Attenta alle parole. Esperienza è quando impari qualcosa, quando sei presente in una situazione e questa situazione ti lascia una traccia, un segno. Non proprio quello che era successo poco prima.

Quasi un’ora di prestazioni ginniche, a un certo punto anche davanti a uno specchio. In modo che potessi ricordarmi bene, aveva detto lui con voce fintamente rauca – l’idea era che fosse erotica –, muovendosi come in un tutorial, contraendo a ritmo i muscoli ipertrofici e contemplandone l’immagine riflessa. Più che sesso, sembrava una gara di culturismo. Quando mi domandò se mai un altro uomo mi avesse fatto godere in quel modo mi dissi che poteva bastare. Simulai un orgasmo di prim’ordine, con tanto di gemiti e sussulti, e anche lui, a quel punto, si sentì autorizzato a terminare l’esibizione.

 

Dopo essermi lavata non resistetti alla tentazione di aprire gli armadietti ai lati dello specchio. In quello a destra c’erano collutorio, ibuprofene, Toradol, collirio, Rinazina, vitamine, omega 3, curcuma, glucosamina, melatonina, preservativi di vario genere, inclusi quelli al gusto di fragola, che per fortuna mi erano stati risparmiati. Un po’ più nascosti: Levitra e Minias. Il Minias era evidentemente la ragione per cui adesso dormiva così tranquillo. Il Levitra non sapevo cosa fosse e dunque – molto indiscreta, lo so – lessi, e dal foglietto scoprii, senza eccessivo stupore, che si trattava di “farmaco per il trattamento della disfunzione erettile negli uomini adulti”.

Tanto per completare l’ispezione guardai anche nell’altro armadietto: rasoi vari, crema idratante, crema antirughe, lifting per il contorno occhi, siero, patch per eliminare le borse sotto gli occhi, fondotinta, terra effetto bronzage. Sul lato interno dello sportello era attaccata la pagina di una rivista con un elenco di esercizi di ginnastica facciale “per tonificare i muscoli del viso e combattere rughe, linee sottili e altri segni del tempo”. Me lo immaginai mentre tirava la pelle verso le tempie – “a mo’ di cinesino, per intenderci” (così suggeriva l’autore dell’articolo) – per contrastare rughe e zampe di gallina.

A quel punto decisi di dare un’occhiata al resto della casa. La cucina era pulita e ordinatissima. Nel frigorifero c’erano cartoni di latte di soia, petti di pollo, prodotti probiotici, spuntini proteici, bibite da allenamento sportivo, una bottiglia di champagne.

Poi c’era la palestra. Una stanza spaziosa con panca, bilanciere, manubri, barra per trazioni, una spalliera e un sacco da boxe. Il soggiorno era ampio, con una bella vista, mobili nuovi, costosi e insignificanti. Sugli scaffali una ventina di libri: fitness, alimentazione, self-help e Paulo Coelho.

Prima di andarmene rientrai nella stanza da letto in penombra.

Mi avvicinai all’uomo che continuava a dormire pacifico e che, forse per questo, mi suscitò una fugace tenerezza. Quasi mi venne voglia di fargli una carezza, dargli un bacio di addio. Durò qualche secondo. Poi gli feci ciao con la mano, controllai di avere con me il cellulare, lo spray al peperoncino e il calzino pieno di biglie, e uscii.

Il portone del palazzo si chiuse alle mie spalle, davanti a me una Milano livida, attraversata da luci impure. Non faceva troppo freddo – ma non fa mai troppo freddo ormai, dicono.

Un barbone dormiva in un sacco a pelo, circondato da un rifugio di cartoni, vicino all’ingresso di una banca. Età indecifrabile, come quasi tutti quelli che vivono per strada. Ho cominciato a guardare i barboni da quando mi hanno raccontato la storia di un mio compagno del liceo. Prima una brutta separazione, poi il licenziamento, poi non aveva più potuto permettersi la casa in cui abitava e non ne aveva trovata un’altra. Dormiva in una vecchia auto, mangiava alle mense per poveri, viveva di espedienti, elemosina inclusa. Da quando ho saputo di lui, osservo attentamente ogni senzatetto che incontro. Cerco nelle barbe incolte, nei lineamenti deformati dalla solitudine, dalla miseria, dal freddo, dal vino cattivo la fisionomia di quel ragazzino che, in realtà, non ho mai davvero conosciuto. Siamo stati nella stessa classe per cinque anni e non ricordo una sola volta in cui ci ho parlato. Ma adesso vorrei incontrarlo e chiedergli come è potuto accadere, magari aiutarlo. Uno dei tanti miei pensieri senza senso.

L’uomo che dormiva davanti a me, quella notte, non sembrava lui. Ma del resto, chissà se sarei riuscita a riconoscerlo, in caso lo avessi incontrato. Sul rifugio di cartone c’era una frase scritta col pennarello: SE VOLETE, LASCIATE QUALCOSA. VIVO DI QUESTO. Con la virgola e il punto messi al posto giusto, la scrittura diritta, ordinata e infantile, come fosse stata su un quaderno di terza elementare. Presi una banconota da venti e gliela infilai fra le dita. Lui non si accorse di nulla e continuò a dormire.

Poi accesi una sigaretta, misi gli auricolari, cercai Nick Cave e mentre partivano gli accordi di Into My Arms mi avviai verso casa.

 

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