domenica 29 novembre 2020

Mariangela Pira: Anno Zero d.C. / 2

 


Perché l’economina ci riguarda

Il grande giornalista Ugo Ojetti una volta disse a Indro Montanelli: «Tu non hai ancora capito che l’Italia è un paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria». Occorre conoscere il proprio passato per comprendere meglio il presente e il futuro. Parole che risuoneranno spesso in questo libro.

La storia del pensiero economico racconta come nel tempo la visione delle cose sia mutata a causa di eventi specifici, come dimostrano ad esempio la risposta keynesiana alla Grande Depressione o il fallimento della pianificazione centrale che ha reso l’India, la Cina, la Russia economie del libero mercato. Solo i libri e la storia ci ricordano gli errori che sono stati fatti nel passato. La conoscenza del vivente e la sua esperienza durano per poco. Quando scompaiono, la storia tende a ripetersi.

Capire l’economia per guardare al futuro

Il momento difficile che stiamo vivendo ci offre l’occasione di esplorare alcune dinamiche economiche e le loro ripercussioni sulla società. In Italia l’economia è una materia da sempre sottovalutata ma con cui sarebbe invece utilissimo entrare in confidenza.

Quasi tutti i ragazzi che dall’Europa e dal resto del mondo arrivano nelle nostre università hanno fatto almeno qualche corso base di economia. Invece i giovani italiani che approdano negli atenei dal liceo classico o scientifico, seppur bravissimi, ignorano completamente le grandi teorie economiche, per non parlare di cosa sia un fatturato, un’impresa, o cosa voglia dire produrre valore.

Eppure, oggi più che mai, i loro risparmi, e quindi anche il loro futuro, sono governati da regole economiche. Tutti capiamo di calcio, ma di allenatore ce n’è uno solo. Allo stesso modo, sono poche le persone che decidono il nostro avvenire ma, poiché siamo noi a sceglierle, un’infarinatura su temi così importanti male non farebbe. L’economia è una di quelle materie che andrebbero inserite già nei programmi delle scuole medie e rese necessarie a tutti i livelli delle superiori.

L’Italia ha sofferto il bias gentiliano in base al quale l’economia è un negotium da disprezzare e a cui preferire l’otium creativo. La nostra scuola aborre le discussioni sull’economia e sulla storia contemporanea. Se va bene ci fermiamo alla Seconda guerra mondiale. La modernità è totalmente esclusa dai programmi scolastici.

È chiaro che in questo modo non si contribuisce a fondare le basi economiche delle generazioni future, tantomeno le si mette nelle condizioni di produrre manager capaci. Siamo bravi imprenditori, questo sì, perché la creatività l’abbiamo nel sangue. Ci manca però la cultura dell’organizzazione, della disciplina, del senso delle leggi, che si impara quando si studia diritto ed economia. Torna quindi il tema della scolarità e di come questa dovrebbe proseguire nel tempo estendendosi alla modernità e alle forme contemporanee di organizzazione ed economia.

Se non accoglieremo queste materie di studio nei programmi, saremo un paese che vive con lo specchietto retrovisore, limitandosi a celebrare i fasti del passato. Ma se il passato è stato straordinario è solo perché qualcuno in quei tempi lontani ha creduto nel futuro: il Rinascimento, il Barocco, il Futurismo sono state tutte rivoluzioni nate in contrapposizione al passato. Il coraggio dei grandi artisti e dei loro mecenati era un coraggio da avanguardisti, non da classicisti. L’arte è rivoluzione. Questo paese è diventato bello grazie ai suoi rivoluzionari.

Anche l’aggregato sociale che chiamiamo città, la civitas moderna ideata dai Romani, è un luogo rivoluzionario. Le poleis greche, infatti, erano nuclei di sfruttamento sociale, spesso basati sullo schiavismo. «L’aria della città rende liberi» recitava una celebre massima medievale. Pensiamo a Milano: la gran parte delle persone che ci vive, compresa me che sono sardissima, non è milanese ma qui respira aria di libertà. Milano continua a reinventarsi. Con i suoi grattacieli certo, ma anche con la capacità di modernizzarsi nel rispetto dei suoi cittadini.

Il messaggio che mi preme comunicare, e che ritroverete nelle pagine di questo libro, è che se non supereremo il conflitto edipico nei confronti di chi blocca l’evoluzione non diventeremo mai una grande nazione, resteremo invece un paese attaccato alle tradizioni e al passato. E la mera celebrazione delle tradizioni, senza peraltro la capacità di valorizzarle al meglio, non giocherà a nostro favore.

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