dal libro “La forza della fragilità”
Vorrei qui fare un cenno al tema del fine vita che si sta imponendo sempre più fortemente nella società contemporanea, anche a motivo dei progressi della tecnologia che permette di vivere più a lungo in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. È in questione la stessa scienza medica. Non corriamo il rischio – è solo uno dei molteplici interrogativi – che una medicina ipertecnologica dimentichi che il senso dell’atto medico è la cura e quindi l’alleanza con l’altro che soffre? È una questione etica fondamentale che non riguarda solo il fine vita, ma tutta la medicina. Sarebbe grave se la prestazione medica si riducesse a un mero rapporto aziendale, mercantile e contrattualistico fra dottore e paziente, scevro da qualsiasi tipo di relazione. Non mi addentro in questo complesso dibattito. Vorrei anche spendere anche solo un cenno alle cure nel fine della vita. Sono convinto – anche di fronte alle impellenti questioni legislative sia in Italia che in altri paesi – della necessità di una più attenta informazione e formazione anche dell’opinione pubblica su queste tematiche. Premetto che la lotta al dolore deve essere netta. Nessuno ama il dolore, neppure il credente, anche se è componente ineludibile dell’esistenza. Si tratta quindi di affrontarlo, lenirlo e attraversarlo, fra resistenza e resa. Non è possibile cancellarlo radicalmente, ma lo si può vivere prendendosi cura dell’altro che soffre, fino alla fine.
Sulle questioni giuridiche, che coinvolgono sia i parlamenti che gli esperti del diritto oltre che l’opinione pubblica, bisogna essere consapevoli che si tratta di questioni culturali e etiche profonde: in gioco non c’è soltanto una legge da definire, bensì costumi e convinzioni che regolano la vita di una società. Una legge non azzera né dà vita a un comportamento: è vero il contrario. La legge è un effetto, una conseguenza ed è bene accorgersi di come il sentire comune, a livello culturale e antropologico, sia cambiato. Mi pare comunque doveroso, per parte mia, affermare anzitutto che tanto l’eutanasia quanto l’accanimento terapeutico non sono forme di cura. La vera cura richiede di superare l’alternativa fra questi due estremi, appunto, eutanasia e accanimento terapeutico. Entrambe le scelte, infatti, pretendono di dominare e possedere la morte: la prima anticipandola, la seconda, al contrario, posticipandola. È uno degli aspetti del «prometeismo» di cui ho parlato in precedenza. La morte, infatti, non è un evento di cui possiamo disporre: non posso decidere se morire o no, come, del resto, non posso decidere se nascere o meno. Nessuno autonasce. Tutti ci troviamo nella vita ad opera di altri. Il morire, peraltro, è un’esperienza radicale del vivere e non si può vivere pensando di non dover morire mai. Il no all’eutanasia e all’accanimento significa dire «sì» all’accompagnamento del morente. E questo è «prendersi cura» gli uni degli altri. Certo, non sempre è facile distinguere fra eutanasia e sospensione dell’accanimento. Ma deve essere chiaro che una cosa è decidere di provocare la morte, altra cosa è riconoscere l’ineluttabilità del morire.
Il
criterio per capire se i trattamenti somministrati siano forme di cura è la
loro proporzionalità. E qui serve il dialogo strettissimo tra
medico e paziente, con il contributo e il coinvolgimento delle famiglie, degli
amici e anche dei comitati di bioetica che possono aiutare a discernere e
distinguere, prima di prendere una decisione. È quell’alleanza d’amore che deve
circondare i malati che si trovano in queste difficilissime condizioni. Purtroppo
sta prevalendo l’idea che libertà sia «fare ciò che si vuole» fino in fondo,
anche per quanto concerne la morte. A mio avviso questa concezione della
libertà è astratta e individualistica. Astratta perché, in realtà, la
nostra autonomia fa continuamente i conti con ciò che non si è deciso.
Individualistica perché la nostra libertà non è limitata dall’altro, ma resa
possibile grazie all’altro. Siamo legati gli uni agli altri. Nessuno di noi è
un’isola; la stessa democrazia non si basa sull’individualismo, bensì sulla
comunità istituita di soggetti che si riconoscono liberi. Prendersi cura gli
uni degli altri significa non abbandonare nessuno e «tenersi per mano» sino
alla fine: ciò che unisce quelle due mani che si stringono è più forte della
morte.
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