da: Il Messaggero di Sant’Antonio
Il management sta diventando la nuova ideologia del nostro mondo globale, in particolare quel management insegnato nelle business school e veicolato dalle grandi imprese globali di consulenza.
Nel Novecento la critica sociale si era indirizzata verso la teoria economica liberale, individuando negli economisti teorici il grande nemico da combattere per costruire una società finalmente giusta ed egualitaria. Mentre gli intellettuali, fossero essi cattolici o socialisti, battagliavano questa guerra, nelle facoltà di ingegneria e nelle business school crescevano le tecniche e gli strumenti del management che negli ultimi decenni si sono progressivamente trasformati nell’«ideologia del management» costruita attorno ai tre dogmi dell’incentivo, della leadership e del merito. Una ideologia che sta dilagando ovunque, incluse le comunità cristiane e le chiese, dove ormai si stanno moltiplicando i corsi sulla leadership per parroci e responsabili di movimenti, dove ormai non si può più fare un convegno o un capitolo generale senza coach o facilitatori professionisti provenienti dal mondo del business, come se avessimo, d’un tratto, dimenticato quella antica sapienza di come svolgere gli incontri di comunità e le assemblee.
Anche il mondo europeo e i Paesi di cultura cattolica come l’Italia stanno subendo una rapida evoluzione e un veloce cambiamento culturale. Noi cattolici eravamo così convinti che le leggi della vita non seguissero quelle del merito che lo avevamo relegato in cielo, dove era il criterio per «meritarci» l’inferno o il paradiso. Il mondo protestante, invece, in nome della salvezza per sola gratia (Lutero) o per predestinazione (Calvino) aveva espulso il merito dal paradiso e dall’inferno, e poi sulla terra ha inventato, qualche secolo dopo, la meritocrazia (che nasce negli Stati Uniti).
Il business sta esportando questo umanesimo protestante dagli Usa (e dal Nord Europa) in tutto il mondo, e oggi lo fa soprattutto con l’ideologia del management, che è talmente penetrata anche in Italia da far cambiare il nome del ministero «dell’Istruzione» in «dell’Istruzione e del Merito».
Così, al posto dell’antica etica delle virtù su cui avevamo fondato la nostra civiltà, l’ideologia del management e della consulenza globale e totale offre un insieme di principi, buone pratiche, elementi di psicologia, citazioni di classici della filosofia, della sociologia e dell’economia, qualche aneddoto di teoria dei giochi, molti diagrammi di flusso, stupendi power point. E infine i consulenti di ogni tipo e nome fanno diventare i principi del management strumenti operativi di gestione e di governance. La grande impresa è così diventata il paradigma che tutti dovrebbero seguire se vogliono fare cose buone e serie. Nel Novecento era la democrazia, quindi la partecipazione, che aveva offerto il modello da estendere a tutta la vita civile. Ma mentre la prima trasformazione democratica dall’antico regime si è svolta in mezzo a conflitti e a grandi lotte sociali, la grande trasformazione etica e culturale che il business sta operando nel mondo si sta compiendo nell’indifferenza (quasi) generale. Non si tratta di negare l’importanza dei valori e delle virtù economiche, sarebbe stolto e sbagliato.
Il problema è un altro, e non riguarda né l’impresa né il necessario management, tantomeno gli imprenditori che sono le prime vittime di questa nuova stagione. I problemi riguardano l’ideologia del management, che arriva ovunque perché, barando, si presenta laicamente come tecnica, e quindi come qualcosa di necessario e di non ideologico.
Forse
è ora di prenderne coscienza e parlarne di più.
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