da: https://www.famigliacristiana.it/ - di Elisa Chiari
Nella giornata mondiale dei diritti dell'infanzia, ci diciamo che abbiamo fatto passi avanti e che ci vuole tempo per tradurre in fatti le buone intenzioni. Ma ai piccoli che attorno a noi non siamo riusciti a tutelare questa risposta non può bastare
Il 20 novembre nelle scuole si racconta la storia della giornata dei Diritti dell’infanzia. Spieghiamo ai bambini che accade perché il 20 novembre del 1989 i grandi si sono messi d’accordo per scrivere una lunga Convenzione, 54 articoli, che mette nero su bianco i diritti dei più piccoli. L’hanno ratificata, cioè fatta propria, tutti gli Stati del mondo, ad eccezione degli Stati Uniti d’America.
Raccontiamo loro che tra questi diritti ci sono principi fondamentali tra cui il diritto a non essere discriminati, il diritto allo sviluppo e al benessere, di cui fanno parte salute, scuola, gioco, il diritto a essere coinvolti in base all’età nelle decisioni che li riguardano. Ma i bambini vivono tra noi, osservano con più attenzione di noi, origliano le notizie dai nostri Tg. Davanti al nostro celebrare la giornata ci chiederanno, loro così specialisti dei “perché”, perché, se tutti hanno firmato questa bella cosa, in Nigeria c’è ancora la poliomielite? Perché ancora tante bambine nel mondo non vanno a scuola? Perché ci sono bambini dietro il filo spinato al freddo al confine della Polonia?
Diremo loro che è un lungo cammino: che ci sono voluti millenni per capire prima che le persone avevano dei diritti e dopo che ci sono voluti secoli per capire che anche i bambini erano persone con diritti loro. E infatti i meno giovani tra noi, cioè i loro nonni, hanno fatto in tempo a vedere l’epoca in cui capitava che già a otto anni i bambini lasciassero la scuola per essere avviati a lavori pesanti, con orari senza fine, per paghe più modeste di quelle dei grandi, un po’ per fame, un po’ perché si doveva ancora maturare la consapevolezza che quella fosse un’ingiustizia. Spiegheremo loro che la scuola, che a otto anni magari si vive come un obbligo sofferto, in certi posti del mondo, nonostante le leggi, non è ancora un diritto scontato e dove non c’è si va al lavoro troppo presto e si perde il diritto di giocare. E nell’ammettere questo dovremo dire loro che i grandi sono bravi a scrivere carte, meno ad applicarle e che comunque per far vivere le buone idee ci vuole tanto tempo.
Ma poi succede di guardarsi attorno, più da vicino, e accanto a quelle dei bambini svegli, ma tutto sommato fortunati, che ci stanno intorno, sentiamo affacciarsi altre domande, più difficili da eludere: sono le domande mute del piccolo Eitan, che ha perso la sua famiglia al Mottarone, e adesso è conteso tra Italia e Israele; della bambina di Sassuolo, cui il compagno della madre ha sterminato la famiglia; del bimbo di un anno morto di freddo alle porte dell’avanzata Europa; di Matias, ucciso dal padre che non accettava la separazione dalla sua mamma; della bimba nata 15 mesi fa con maternità surrogata in Ucraina e lasciata là in un limbo tutto da indagare.
Davanti
alle loro domande noi adulti non potremo che abbassare lo sguardo e ammettere
che, con tutte le nostre conquiste, non siamo sempre all’altezza dei loro
diritti che pure affermiamo. A loro non può bastare la risposta che ci diamo,
che ci vuole tempo, perché loro sono quelli per cui non siamo arrivati in
tempo. E allora ben venga la giornata purché non serva a celebrare le conquiste
raggiunte ma a tenere a mente gli obiettivi di là da venire.
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