domenica 29 maggio 2022

Vincenzo Paglia: La forza della fragilità /2

 


Tra Prometeo e Narciso

 Tutti fragili

Cominciamo da una definizione: si dice fragile qualcosa che può rompersi al minimo urto (la parola viene dal latino frangere). Il termine «fragilità», in italiano, è uguale sia al singolare che al plurale e indica una condizione generale che si declina in molteplici forme: i nomi sono molti e diversi, ma tutti rinviano alla radicale incompiutezza sia del mondo che dell’umanità. Più che una qualità che alcuni hanno e altri no, la fragilità è un tratto comune a tutti e a tutto. Nulla le sfugge.

È luogo comune considerare fragile il bambino, il disabile, l’ammalato, l’anziano (in certi contesti e in certe culture, anche la donna). In realtà, la fragilità appartiene alla condizione umana in quanto tale. È fragile il nostro corpo nei suoi meccanismi biologici che facilmente si alterano e si rompono. Sono fragili le nostre emozioni e le nostre relazioni che peraltro riempiono di senso la nostra vita. Sono fragili e mutevoli i nostri comportamenti e le nostre abitudini; fragile la ragione che si scontra continuamente con il suo limite oltre il quale si dà solo arroganza. Potente ma fragile il nostro desiderio, che non sempre si compie nel suo soddisfacimento. Gli uomini e le donne continuano a morire. Non siamo né assoluti né compiuti: la comune esperienza ci dice senza tema di equivoci che la vita non è mai pienamente nelle nostre mani. È fragile e facilmente si può rompere. Per questo le cose fragili vanno maneggiate con cura. L’uomo e le sue realizzazioni sono fragili: quanti imperi

sono crollati, quante Chiese sono scomparse.

Ma anche la natura è fragile: quanti sconvolgimenti si susseguono nel corso degli anni, quante rovine sono provocate dai disastri naturali. E si potrebbe continuare. La scienza arriva a dirci che la fragilità è una componente ineliminabile anche di quelle realtà materiali che abbiano sempre considerate eterne e immutabili. Una delle ipotesi che si fa sempre più consistente tra gli scienziati è quella che l’universo stesso, qualora il campo di Higgs subisse una particolare transizione, potrebbe crollare di colpo.

La globalizzazione ha allargato la consapevolezza della fragilità e dell’interconnessione di ciascuno con il destino e le vite degli altri esseri umani. Non solo attraverso la potenza di un singolo e macroscopico evento – pensiamo all’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 –, ma anche attraverso la sempre più rapida e visibile moltiplicazione di eventi catastrofici (virus letali, terrorismo globale, proliferazione nucleare, crisi finanziarie) e la loro globale interdipendenza, che sempre più ci vincola e ci connette in una dimensione comune. Ormai non possiamo non sapere che siamo tutti fragili, dipendenti, mortali, finiti.

Ma la fragilità non riguarda solo la dimensione fisica: la stessa libertà umana ne reca l’impronta. In questo segno di non autosufficienza si annuncia la costitutiva relazionalità che fa della persona umana un figlio ed un fratello bisognoso di essere amato e protetto. Siamo fragili perché aspiriamo ad essere amati, per imparare ad amare noi stessi grazie agli altri che ci amano. Anche se comunemente si è portati a pensare che sia l’amore a rendere fragili, è vero piuttosto il contrario: si è fragili proprio perché possiamo lasciarci amare e diveniamo capaci di rispondere all’amore.

La fragilità non è un accidente da tenere lontano, non è una malattia, da cui guarire. È piuttosto la condizione che caratterizza la comune natura umana: una delle sue strutture portanti. Non si può scappare dalla propria fragilità. Con essa bisogna fare, volenti o nolenti, i conti. Ma non è solo il segno di una debolezza inutile e insensata, da disprezzare se non si riesce a combatterla: nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi. Insomma, può diventare una risorsa, una opportunità. Fragilità, vulnerabilità e sensibilità: tre aree che sconfinano l’una nell’altra.

Fino a prova contraria, la natura umana è quella di nascere e morire nella fragilità. La vita e la morte sono i due limiti ineliminabili entro i quali si gioca l’esistenza umana. L’uomo con la sua abilità può migliorare tutto ciò che accade tra questi confini estremi, ma certo non può cancellarli: la vita si sporge sempre sulla morte, non dipende dall’uomo. Per quanto sia doveroso combattere ogni sorta di male che possa affliggere la nostra esistenza, questa rimane costitutivamente fragile, in tensione tra questi due estremi inseparabili da noi e tra loro.

L’esperienza della pandemia ci dice che la potenza dei nostri mondi non è così invincibile come forse ci eravamo illusi negli ultimi anni. Ha ragione Morin: mentre la follia euforica del transumanesimo sta portando al parossismo il mito della necessità storica del progresso e quello della padronanza da parte dell’uomo non solo della natura, ma anche del suo destino (predicendo che l’uomo accederà all’immortalità e controllerà tutto con l’intelligenza artificiale), noi siamo dei giocatori/giocati, dei possidenti/posseduti, dei potenti/idioti. Potremo magari ritardare la morte per invecchiamento, ma non potremo mai eliminare gli incidenti mortali in cui i nostri corpi saranno spappolati, non potremo mai liberarci dai batteri e dai virus che incessantemente si automodificano per resistere a medicine, antibiotici, antivirali, vaccini. La fragilità, dunque, va riconosciuta e accolta: è costitutiva dell’umano. Piene di sapienza sono queste parole di Simone Weil: «La nostra carne è fragile: qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, lacerarla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi congegni interni.

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