giovedì 3 settembre 2020

Riduzione dei parlamentari: Salvatore Vassallo, le ragioni del Sì

 

da: https://mailchi.mp/editorialedomani/quasi-domani-5538009?fbclid=IwAR2AzQOia-DENTsQ0BnVsafdTjZvjwYpgXnhwOpTRTTjbRvGo-Wsj7LNW1I

di Salvatore Vassallo 

Quasi mille parlamentari sono troppi? 600 sono troppo pochi?

Partiamo dai numeri, perché di questo alla fine si tratta: se i componenti eletti del parlamento italiano devono rimanere quasi mille o devono essere ridotti a 600, come deliberato dagli stessi parlamentari oggi in carica: prima solo a maggioranza assoluta poi, in ultima lettura alla Camera, quasi all’unanimità (553 voti, 97 per cento dei presenti, 88 per cento dei componenti). È proprio vero che 945 parlamentari (al netto dei senatori a vita) sono troppi? O che 600 sono troppo pochi?

Risposte sensate possono essere date solo attraverso confronti con altri paesi. Nella graduatoria mondiale desumibile dai dati dell’Inter-Parliamentary Union, il parlamento italiano risulta terzo per numero assoluto di componenti, ma i due casi che lo precedono sono parecchio sui generis: l’assemblea nazionale del popolo cinese (circa 3.000 componenti) si riunisce in plenaria solo una volta all’anno per ratificare le decisioni prese dai vertici del partito comunista; il parlamento britannico somma 1.445 componenti solo grazie allo spropositato numero di Lord a vita (circa 800), non eletti dai cittadini, che possono mantenere il titolo anche se si fanno vivi a Westminster saltuariamente.

Considerando tutti gli altri stati esistenti, federali e accentrati, democratici e non democratici, presidenziali e parlamentari, piccoli ed enormi, l’Italia ha, nel mondo, il parlamento nazionale più affollato: più di qualsiasi paese europeo, oltre che di Stati Uniti (531 con 306 milioni di abitanti), Brasile (510 con 193 milioni di abitanti), Giappone (710 con 127 milioni di abitanti). Novecentoquarantacinque erano già troppi nel 1948. Sono diventati un numero abnorme da quando sono stati istituiti i consigli regionali e il parlamento europeo. Innovazioni che hanno portato a oltre 1.880 il numero complessivo dei nostri “legislatori”.

Ma 600 (400+200) non sono troppo pochi? Prendiamo tutti i paesi democratici con più di 20 milioni di abitanti, cioè tutti e solo quelli con cui ha più senso paragonare l’Italia, quindi escludendo dal computo i Lord. Le camere basse hanno in media 418 componenti, le camere alte 143.

Se passa la riforma, il numero di parlamentari italiani per milione di abitanti scende da 16 a 10, sotto il livello di Polonia, Canada, Francia, Spagna. Ma in questi paesi i componenti delle seconde camere hanno poteri ridotti e molti tra loro non sono eletti direttamente dai cittadini. Se si considerano i parlamentari eletti direttamente, a tempo pieno e con pieni poteri, l’Italia, dopo la riforma, si colloca perfettamente in linea con gli altri paesi europei medio-grandi.

La camera bassa tedesca (il Bundestag) è composta da un minimo di 598 membri che possono diventare circa 700 per effetto dei seggi eccedenti conquistati dai partiti maggiori nei collegi uninominali e dei seggi dati per compensazione proporzionale ai partiti minori. La camera alta (Bundesrat) è composta da delegati dei governi regionali che esprimono in blocco i voti a disposizione del loro Land. In Germania i parlamentari sono oggi meno di 9 per ogni milione di abitanti. Diventerebbero 9,5 se i 69 “voti” esprimibili nel Bundesrat venissero erroneamente considerati alla stregua di 69 senatori. Nell’Italia post-riforma avremmo più di 10 parlamentari per ogni milione di abitanti.

Perché allora qualcuno dice che in Italia, con la riforma, diventeremmo il fanalino di coda in Europa? Perché imbroglia sui numeri, grazie a un calcolo dell’Ufficio studi della Camera dei deputati in cui sono contati distintamente i componenti delle sole camere basse. Per esempio, i 400 deputati italiani post-riforma vengono messi a confronto con gli attuali 709 componenti del Bundestag tedesco, senza considerare che in Italia ai deputati si aggiungono 200 senatori a tempo pieno e con pieni poteri, mentre in Germania i senatori semplicemente non esistono.

Meno parlamentari, meno rappresentanza?

Secondo i sostenitori del No, con meno eletti si ridurrebbe il potere delle Camere e il bilanciamento tra parlamento e governo. Il Senato sarebbe comunque troppo piccolo per poter esercitare appieno tutte le sue funzioni, con meno parlamentari si ridurrebbe la possibilità di un rapporto diretto, quindi di un effettivo rendiconto, tra elettori ed eletti in ogni specifica porzione del territorio; si ridurrebbe la proporzionalità del sistema elettorale.

Bene. Provate a chiedere a uno di loro il nome di un paio di parlamentari eletti nella sua circoscrizione di residenza. Se va bene citerà qualche eletto nella stessa regione, ma confonderà deputati e senatori. Chiedetegli allora per quali proposte, posizioni o battaglie parlamentari sono riconoscibili. Farà scena muta. Per un paio di ragioni molto semplici.

Molti di noi conoscono il nome del sindaco del proprio comune e si fanno più o meno un’idea di come svolge il mandato. Lo stesso capita agli elettori americani per i senatori del proprio stato. Perché sono pochi, uno o due per territori ampi o chiaramente identificabili, e perché sono abbastanza influenti da “fare una qualche differenza” nelle istituzioni in cui operano.

A fronte di pochissimi super-competenti iperattivi, buona parte dei 945 parlamentari italiani svolgono invece funzioni routinarie, votano a comando dei segretari d’aula e dei capigruppo di commissione del loro partito, sottoscrivono progetti di legge e interrogazioni elaborati da altri, hanno rapporti con segmenti quantitativamente irrilevanti dell’elettorato. Questo non avviene solo per la loro scarsa competenza, ma anche perché sono troppi rispetto alle funzioni del parlamento nazionale, prosciugate dalle regioni, dall’Ue e dal governo. Per lo più, e nel migliore dei casi, rileggono, emendano e approvano progetti di legge prodotti in qualche ministero. Non si tratta peraltro di una anomalia italiana. È la norma delle democrazie parlamentari, nelle quali, a dispetto del nome, la maggioranza, dopo aver dato la fiducia al governo, gli cede il potere di agenda. Al contrario di quanto accade, a dispetto del nome, in un regime presidenziale come quello statunitense.

In ogni caso, più piccolo è il numero dei legislatori, più è probabile che ciascuno di loro possa “fare la differenza”, più forte il “bilanciamento” del legislativo nei confronti dell’esecutivo. Quindi, anche più probabile che gli elettori riescano a ricordarsi come si chiamano, cosa hanno fatto i parlamentari del loro territorio e a giudicarli.

Se i 100 senatori americani possono coprire tutto il lavoro legislativo, di servizio al collegio e di controllo sul governo della più grande potenza mondiale, in un regime presidenziale, in aula e nelle commissioni, non c’è alcun dubbio che potranno farlo anche i 200 senatori italiani.

Quanto alla rappresentanza, se si parte dal presupposto che un partito del 10 per cento debba avere eletti ovunque, anche in Molise, allora servirebbe una Camera composta da 2.000 persone. È ovvio che la proporzionalità può essere garantita solo al livello nazionale. Duecento senatori + 400 deputati bastano e avanzano per consentire, volendo, la presenza in parlamento anche di partiti con l’1 per cento dei voti.

Manca l’adeguamento di quorum e regolamenti? Un cedimento al populismo? 

Soprattutto a sinistra, si dice che ridurre solo il numero senza modificare quorum e regolamenti parlamentari sarebbe pericoloso per gli equilibri costituzionali. Trattasi di esagerazioni o fantasie. Tanto è vero che il Pd ha proposto la stessa cosa, nella sedicesima legislatura, attraverso un progetto di legge a prima firma dell’allora capogruppo in Senato, Luigi Zanda, sottoscritto tra gli altri da Anna Finocchiaro, Nicola Latorre, Felice Casson, Enzo Bianco, Stefano Ceccanti. Le cinque righe del testo prevedevano la sola riduzione dei deputati a 400 e dei senatori a 200.

Ancora oggi nell’archivio del sito Pd si legge a pieno titolo: Meno parlamentari. Basta un sì alle proposte Pd. Berlusconi e La Russa propongono di raccogliere firme ma da un anno insabbiano il taglio proposto da noi.

I più strenui “difensori della costituzione”, fautori del No nel referendum del 2016, sostennero allora questa tesi: non c’è bisogno di stravolgere il parlamento, basta una norma di poche righe che riduca il numero dei componenti di entrambe le camere, si può fare in sei mesi. Quindi, non è tanto strano che il Pd abbia alla fine votato la riforma. È più inspiegabile che non lo abbia fatto prima.

D’altro canto, qualsiasi riforma di qualche rilievo richiede adattamenti e norme attuative di rango inferiore, che ovviamente non possono essere esaminati prima che sia entrata in vigore la norma-madre. Camera e senato avranno tempo fino alla fine di questa legislatura per cambiare i regolamenti parlamentari in vista della prossima, se sarà necessario.

In mancanza di argomenti migliori, altri sostenitori del No dicono che la riforma va respinta perché è stata proposta con le motivazioni sbagliate, cedendo a una deriva antiparlamentare. In pratica, secondo questa tesi, i partiti sarebbero diventati tutti populisti! Per inseguire una moda (?) o per una piccola convenienza di breve termine (?)… avrebbero ridotto con voto unanime il numero di posti ottimamente retribuiti attribuibili ai propri affiliati! (???)

La verità è che, a prescindere e in contrasto con qualsiasi evidenza, in Italia c’è sempre mercato per il benaltrismo, il malpancismo e il dubbio che dietro a ogni scelta pubblica ci sia la fregatura: sindromi ricorrenti in vari segmenti dell’opinione pubblica che i politici di sinistra e di destra hanno sfruttato a parti invertite nel corso del tempo, e che alcuni media inseguono con l’obiettivo di mettere in cattiva luce i politici, ergendosi a espressione di superiori virtù. Anche quando la questione in sé stessa è cristallina.

Novecentoquarantacinque parlamentari nazionali sono troppi, senza dubbio. Non c’è alcuna ragione per credere che 600 siano troppo pochi. La riduzione del numero non riduce la qualità del processo legislativo, del servizio reso dai parlamentari ai territori, la loro accountability.

La logica e l’analisi comparata delle democrazie forniscono solo elementi che inducono a pensare il contrario.

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