mercoledì 9 novembre 2011

Umberto Galimberti: L’ospite inquietante / 2


Un pò di musica sparata nelle orecchie per cancellare tutte le parole, un pò di droga per anestetizzare il dolore o per provare una qualche emozione, tanta solitudine tipica dell’individualismo esasperato, sconosciuto alle generazioni precedenti, indotto dalla persuasione che - stante l’inaridimento di tutti i legami affettivi - non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi, nel deserto dei valori, a quell’unico generatore simbolico di tutti i valori che nella nostra cultura si chiama denaro.
Va da sé che quando il disagio non è del singolo individuo, ma l’individuo è solo la vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, se non addirittura di sensi e di legami affettivi, come accade nella nostra cultura, è ovvio che risultano inefficaci le cure farmacologiche cui oggi si ricorre fin dalla prima infanzia o quelle psicoterapiche che curano le sofferenze che originano nel singolo individuo.
E questo perchè se l’uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perchè questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime.
E che dire di una società che non impiega il massimo della sua forza biologica, quella che i giovani esprimono dai quindici ai trent’anni, progettando, ideando, generando, se appena si profila loro una meta realistica, una prospettiva credibile, una speranza in grado di attivare quella forza che essi sentono dentro di loro e poi fanno implodere anticipando la delusione per non vedersela di fronte?
Non è in questo prescindere dai giovani il vero segno del tramonto della nostra cultura? Un segno ben più minaccioso dell’avanzare degli integralismi di altre culture, dell’efficientismo sfrenato di popoli che si affacciano nella nostra storia e con la nostra si coniugano, avendo rinunciato a tutti i valori che non si riducano al valore del denaro.
Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perchè Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perchè non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non quella formula ridotta della “ragione strumentale” che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell’orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l’aridità del sentimento.

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