La mattina
seguente era il 17 gennaio. Il termometro segnava quattro gradi sotto lo zero.
In piazza Tommaso Grossi non c’era nessuno, ad eccezione dello spazzino
comunale Oreste che fischiava con forza il Carnevale di Venezia, scopettando ai
piedi del monumento al poeta rami secchi e qualche cartaccia.
La superficie del
lago era immobile, emanava una pacata allegria. Sul molo una lunga fila di
gabbiani s’era acquartierata sulla murata. Le bandiere, maltrattate dal vento
nei giorni precedenti, pendevano flosce e sfilacciate dai pali.
Iole aveva
camminato a passo di corsa, aveva la punta del naso e le gote rosse. Non appena
sbucata in piazza salutò Oreste con un cenno dalla mano. Lo spazzino, secondo
sua abitudine, le gridò che quel giorno era santa Viscarda; aveva un
martirologio tutto suo: santa Viscarda, santa Bernarda, santa Bibbiana erano le
tre protettrici della sua vita senza donne.
All’altezza del
bar Centrale, di fronte a molo e poco prima del portone del municipio, un uomo
si fece incontro all’impiegata: era Domenico Osio, pensionato delle ferrovie
factotum di tutte le associazioni bellanesi, dalla pro-loco, per la quale, in
estate, teneva aperto l’ufficietto d’informazioni in piazza, all’associazione
Mutilati e Invalidi di Guerra, per conto della quale consegnava a mano gli
avvisi di riunione garantendo il risparmio delle spese postali.
Dal suo
appartamento all’interno del bar l’Osio aveva visto arrivare l’impiegata e le
aveva sbarrato il passo.
«Vuole qualche
biglietto della lotteria signorina?» le chiese allegramente.
«Che lotteria?»
s’informò Iole.
«Della Croce
Rossa», spiegò il pensionato, «estrazione martedì grasso.»
«Me ne dia uno.»
«Uno solo?»
«Uno», confermò
Iole. «Quant’è?»
L’Osio le disse il
prezzo.
Iole frugò nella
borsetta, ne trasse un grosso portafoglio in finta pelle di coccodrillo che si
aprì immediatamente in due scomparti.
«’Sta cerniera»,
sbuffò la donna pagando e riprendendo la marcia verso l’ufficio.
Un quarto d’ora
più tardi il custode del molo, Leandro Gianola, raccolse da terra, sulla soglia
del bar, una carta d’identità. L’aprì: era di Iole Vergara, nata a Bellano il
17 gennaio 1924, nubile, impiegata, uno e sessantacinque, capelli neri, occhi
marroni, residente a Bellano. Il Gianola notò la coincidenza delle date e rise
di gusto guardando la fotografia della Vergara. Il fotografo l’aveva messa in
bella posa, con gli occhi che guardavano verso l’alto, preoccupati, come se la
voluminosa permanente fosse sul punto di crollare; le labbra gliele aveva fatte
stringere a culo di gallina. Messo in tasca il documento si avviò alla volta
del municipio. Entrò negli uffici, salutò, si rivolse a Iole.
«Le ho portato la
sua carta d’identità», disse. «L’ho trovata per terra, davanti al bar
Centrale.»
Iole arrossì.
«Devo averla persa
prima, quando ho preso il biglietto della lotteria.»
«Buon compleanno»,
aggiunse il Gianola.
«Eh già, eh già»,
sbottò dal fondo dell’ufficio il segretario Domenico Restelli. «Signorina Iole
auguri! Ma come ho fatto a dimenticarmi, stamattina stessa mia moglie me l’ha
ricordato!»
Iole aveva il viso
di brace.
«Fai finta di
niente per non pagare la festa?» chiese l’impiegata Iride Rusconi.
Il messo comunale
Adelio Troilo guardava tutta quell’improvvisa allegria con una faccia da
babbeo.
«Ma no», si
schernì Iole. «Anzi», disse rivolgendosi al segretario, «se me lo permette
offrirò l’aperitivo a tutti.»
«Anche a me, eh?»
disse il Gianola.
Iole accennò di
sì, sorrise, era confusa: se non fosse stato per la carta d’identità nessuno si
sarebbe accorto di niente. Da quando era morta sua madre s’era abituata agli
onomastici e ai compleanni in solitudine. Si faceva da sé auguri e regali, come
il televisore che aveva deciso di acquistare quell’anno.
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